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Dall’Antica Grecia ai giorni nostri; l’invenzione del motore elettrico

Siamo così circondati dai moto­ri elettrici che non ci accorgia­mo neanche più di averli intor­no. Si nascondono nell’asciugacapel­li per soffiare l’aria calda, nel rasoio da barba per far muovere le lame, nel frigorifero per azionare la pom­pa di raffreddamento, nel videoregi­stratore e nel lettore di cd per far gi­rare il nastro e il disco, nel compu­ter per ventilare i circuiti, nell’aspi­rapolvere, nella lavastoviglie, nella lavatrice, nel frullatore… Piccoli, si­lenziosi ed economici. Costano po­co e consumano poco, meno di una lampadina. E lavorano per noi fede­li e sicuri. Facendo un po’ di conti in base ai mille compiti che svolgono gli elettrodomestici, qualcuno ha calcolato che è come se ogni fami­glia avesse in casa al proprio servi­zio una ventina di schiavi.

La storia dei motori elettrici è lun­ga e curiosa. Incomincia intorno al 600 a.C., quando il filosofo greco Talete si accorse che dei pezzetti di ambra, strofinati tra loro, acquisiva­no la proprietà di attrarre chicchi di grano. L’ambra, una resina fossile di colore giallo, in greco antico era chiamata elektron. Quindi il misterioso fenomeno che produceva la forza di attrazione fu battezzato elettricità. Lo stesso Talete scoprì che un certo minerale di ferro poteva attrarre altri pezzi dello stesso minerale. Poiché proveniva da Magnesia, città dell’Asia Minore, quel minerale divenne noto come magnetite, e la sua forza di attrazione come forza magnetica. Dalla magnetite si ricavarono poi le calamite e, nel Medioevo, gli aghi delle bussole.

A questo punto l’uomo aveva scoperto i due ingredienti essenziali per fare un motore elettrico: ma il problema di metterli insieme nel modo giusto. Per riuscirci furono necessarie numerose altre scoperte.

Nell’ambra l’elettricità e come imprigionata. Si parla infatti di elettricità statica. Verso il 1780 Luigi Galvani scoprì le correnti elettriche. Dunque l’elettricità poteva spostarsi velocemente da un posto all’altro: basta incanalarla in un filo metallico. Poi Alessandro Volta, nel 1800, inventò la pila, un apparecchio per produrre e immagazzinare corrente elettrica. Infine nel 1823 l’inglese William Sturgeon, avvolgendo un filo metallico intorno a un pezzo di ferro e facendovi scorrere una corrente elettrica, scoprì che si otteneva una calamita artificiale, che però perdeva la sua forza di attrazione appena si staccava la corrente. Era nata l’elettrocalamita.

Un motore deve produrre un movimento meccanico, cioè deve compiere un lavoro. Già nel 1821 Michael Faraday, un rilegatore di libri con una grande curiosità per la scienza, realizzò un motore semplicissimo: una corrente elettrica intermittente faceva girare l’ago di una bussola. Ma un motore così non sarebbe mai riuscito ad azionare nessuna macchina. Il passaggio del motore elettrico dal laboratorio alle applicazioni pratiche deve molto a un fisico italiano: Antonio Pacinotti (1841-1912), ideatore del famoso “anello” che porta il suo nome. L'”anello di Pacinotti” utilizzava elettromagneti al posto delle calamite naturali. Una macchina del genere, se fatta girare con energia meccanica, produce elettricità (e l’apparecchio è chiamato dinamo: c’è, per esempio, su tutte le biciclette costruite anni fà), se percorsa da elettricità produce energia meccanica (cioè funziona da motore elettrico).

Pacinotti era un giovane generoso. Non brevettò la sua invenzione e partì volontario per la seconda guerra d’indipendenza italiana (1859). Al ritorno, andò all’estero per aggiornarsi sui progressi scientifici. Durante una sosta a Parigi descrisse il suo “anello” a un capofficina belga. Zénobe Théophile Granirne. Quattro anni dopo, Gromme brevettava la dinamo e ne avviava la costruzione su scala industriale…

Il motore elettrico però attendeva ancora un importante perfezionamento, quello che lo ha fatto diventare così prezioso e così diffuso nel mondo moderno. La corrente elettrica, nella seconda metà del 1800, incominciava a diffondersi. Ma per generare molta elettricità e trasportarla lontano attraverso cavi ad alta tensione, la pila di Volta non poteva andare bene: la corrente di una pila è debole, a basso voltaggio e continua (cioè viaggia sempre nella stessa direzione, dal polo negativo al polo positivo). Per poter essere trasportata a distanza, invece, la corrente elettrica deve essere ad alta tensione e deve essere alternata, cioè invertire molto rapidamente la sua direzione molte volte al secondo (la corrente elettrica che arriva nelle nostre case cambia direzione 50 volte al secondo; in America 60).

Il contributo di Ferraris

A risolvere questi problemi contribuì in modo decisivo Galileo Ferraris. Nato nel 1847 nella campagna piemontese da una famiglia di farmacisti, fu lui a perfezionare il trasformatore (che serve per passare da una bassa tensione a un’alta tensione e viceversa) e a ideare il motore elettrico asìncrono, che funziona con corrente alternata.

Quasi tutti i motori che oggi usiamo derivano dal motore di Galileo Ferraris, realizzato nel 1885. Si dice che l’idea gli venne durante una passeggiata sotto i portici di via Cernaia, a Torino, perché gli capitò di immaginare le colonne dei portici come avvolgimenti di filo elettrico immobili, e sé stesso come la parte mobile del motore, costituita da un cilindro di rame.

Ecco come andarono le cose nel racconto del suo allievo Riccardo Amò: «Una sera, nell’agosto dell’anno 1885, egli era uscito a passeggio nei dintorni della caserma Cernaia e camminava fantasticando, come trasognato». In questo fantasticare Galileo Ferrarsi pensò che «si dovrebbe poter produrre per mezzo di due semplici correnti alternative, operanti in spirali immobili, un campo magnetico rotante, e ottenere quindi con questo tutti gli effetti che si hanno per mezzo della rotazione di un magnete». Lo scienziato corse in laboratorio e mise alla prova dell’esperimento la sua intuizione: funzionava!

Neppure lui però si preoccupò di brevettare la sua invenzione e solo tre anni dopo pubblicò una descrizione del motore che aveva inventato. Intanto però la stessa idea era venuta anche all’ingegnere croato Nikola Tesla (1856-1943), che la brevettò negli Stati Uniti nel 1888, la cedette a una grande industria e, naturalmente, divenne ricco. Galileo Ferraris, invece, rimase un tranquillo professore con la passione dell’opera lirica. Morì di polmonite il 7 febbraio 1897, il giorno dopo avere assistito a una rappresentazione di Sansone e Dalila.



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