Agostino De Romanis è artista equidistante dal Surrealismo e dalla Metafisica; fondamentale per lo sviluppo culturale nazionale ed internazionale, ha conferito alle sue opere una sottile inquietante atmosfera, capace di inviare segreti messaggi, di emanare l’enigmatica fragranza di un rebus. Ciò che non si nota ad una superficiale lettura delle sue opere si evince in tutta la sua potenza approfondendone la visione, ciò che sembra nascosto è in realtà evidente, ma solo ad un osservatore dall’animo sensibile, come quello del suo ideatore.
A livello di speculazione estetica e formale Agostino sperimenta diverse licenze pittoriche, come la cancellazione parziale dei contorni delle figure umane, inserite in piani e prospettive rigorose, concetti che, rivisti e rivisitati, si ritrovano nella genesi di alcune composizioni di Paul Cézanne (1839-1906) e di Giorgio Morandi (1890-1964), ma soprattutto della pura arte metafisica che non possiede legami con la realtà naturale o storica che sia, neppure per trascenderla.
Giorgio De Chirico colloca forme in uno spazio vuoto, immobile, eterno, De Romanis inserisce presenze ambigue, inquietanti, contraddittorie. Agli uomini che si fregiano di conoscere tutto e che tutto vogliono, l’artista pone enigmi insolubili che disambienta ed estrania l’osservante. E’ indubbio che tutte le sue opere ci parlano della problematicità, della complessità della vita cosciente e incosciente e dell’equilibrio problematico tra le due. Le atmosfere diafane o viste con luce rarefatta di un tardo tramonto con una oscurità di penombra che appena consente di vedere i riflessi nell’acqua crea sensazione ambigua, mentre qualche presenza misterica accentua la nostra inquietudine, il nostro patimento dell’anima, connettendoci alle terrazze del Purgatorio o peggio alle profondità dell’Inferno.
Il linguaggio evocazionale
Le opere di De Romanis esternano un linguaggio magico, metareale, evocazionale, incentrate sulle figure semiastratte presenti in luoghi ancestrali, nelle montagne, nel fuoco, nel mare, nel Tempio di Bedulu. Ma anche imperniate sulla visione autarchica del suo ideatore, che si è dedicato con modalità personalissime alla rappresentazione della vita silente dell’anima, per realizzarne un mondo inanimato capace di suscitare riflessione, gioia, malinconia, e per architettare con la pittura la salvezza della mente.
A cinquanta anni dall’esordio, il Maestro di Velletri è universalmente riconosciuto un vero modello di artista, capace di attraversare le frontiere culturali, pittoriche, geografiche, allo scopo di esprimere ed arricchire il suo genio. Un pittore che ha lungamente lavorato innamorato delle atmosfere e dei colori dell’Indonesia, un artista di fama internazionale che richiama l’attenzione sugli eterni dilemmi del vivere e del morire.
Testimone deliberatamente defilato rispetto alle vicende del dibattito artistico e delle logiche di mercato, ma tutt’altro che distante invece da una personale dimensione vitale, di espressione basica della realtà umana, di sensibilità autentica contemporanea. Si tratta di una pittura colta, dove l’individualità di ogni essere umano è irriducibile ma dove i margini di libertà dell’uomo sono oggi ampi solo apparentemente.
Molti sono i critici d’arte che nel tempo si sono soffermati sulla vasta opera pittorica di De Romanis (Marcello Venturoli, Italo Mussa, Vittorio Sgarbi, Domenico Guzzi, Arnaldo Romani Brizzi, Sandra Giannattasio, Roberto Luciani, ed altri), tuttavia solo alcuni sono riusciti a cogliere nel suo apparente solitario monologo artistico l’adesione partecipe alla scena italiana e mondiale nella vasta imagerie di allusioni e riferimenti all’arte storicizzata. Infatti, pur nella sua autonoma e personale ricerca, tesa ad un’inesausta ed alacre indagine sulle possibilità espressive del colore, della luce e della forma, la “storia” lo ha portato nel corso temporale ad acquisire una personale esternazione stilistica fortemente “classicista”, introspettiva ed evocativa.
Nelle sue tele plasma uno spazio pittorico acquisito dalla metafisica, intriso di silenzi musicali e stupiti, in cui trova ricovero la coscienza di un transeunte, fragile, fugace presente, che come la neve si scioglie al primo sole primaverile, che come filo si dipana dinanzi agli occhi sfuggendo tra le dita.
Agostino narra a suo modo la natura, il lieve zefiro che accarezza il mare, come in Nettuno e la nereide (1988), L’isola della felicità (1988), Pescatori (2002); sempre fedele ad una nozione di consistenza volumetrica e ponderale, disposto a metterla in discussione attraverso un operare che si è venuto definendo nella professione, in modi tuttavia motivati da preoccupazioni di formale strutturazione, per favorire enunciazioni d’immagini archetipe definite dal paesaggio, dal colore e dalla materialità e dalle tonalità di quest’ultimo, come nel caso di Fanciullo che fugge dagl’incubi (1992), In riposo (2007, trittico), Le prescelte (2018).
Come demiurgo di conscia e lunga esperienza De Romanis conferisce una poetica personale interpretazione di altri elementi naturali, come il cielo, sempre ripreso con infinita liricità e prepotente bellezza: ecco quindi Il colore del Cielo (2002), Mare due, i delfini si incontrano (2011).
In queste opere l’artista si è sentito penetrare dal fascino della natura, delle architetture e delle onnipresenti sculture, antiche testimonianze della civiltà asiatica che fonde nell’arte mitologia e vita. E’stato attratto dalle plurimillenarie tradizioni, che tuttora mantengono tutta la ricchezza di significato nella partecipata ritualità.
La simbologia del Maestro
Nelle opere di De Romanis, su stesure cromatiche forti prevalentemente azzurre-rosse-gialle, troviamo anche figure eteree, “presenze” il cui significato è sempre ambiguo, la cui tonalità è sempre aperta e indefinibile, la cui provenienza è la struggente dolcezza della memoria.
Si tratta di seminatori delle risaie, donne velate, giganti, cavalieri, portatori del tempio. Queste figure sono simboli di un mondo straordinario che l’uomo moderno presto annienterà, sono cupi presagi d’allarme.
In opere sempre attentamente progettate e capaci di delineare lo spazio fisico e quello dell’anima, vi sono ancora giardini incantati, maghi folli, il Re pittore, matrone e angeli, attese struggenti, vuoti privi di speranze, malinconie, silenzi.
Sia l’assenza delle “cose” che la loro presenza, sono fantasmi d’una realtà non reale ma trasognata. Queste presenze, queste apparizioni, questi protagonisti della scena infondono un senso metafisico di solitudine spirituale e onirica.
La simbologia del maestro è infatti difficilmente codificabile, interpretabile solo da una ristretta élite di persone dall’anima sensibile ed inquieta. E’ il caso della Mano benefica(2005) dove è visibile una grande mano che guarisce un cavallo di un giovane indonesiano.
L’ultima produzione in mostra al Museo Archeologico di Anzio
Nella produzione più recente di De Romanis affiorano evocati volti e sagome di personaggi misteriosi, dei, occhi, eroi, inquieti idoli rimasti per secoli nascosti sotto la terra, dove la luce sgorga escludendo ogni ombra e purificando l’immagine dal buio. Il discrimine tra figurazione e astrattismo è sovente impercettibile, a volte affidato alla sola sensibilità dell’osservante. Qui sta il senso di un’arte sottile nei significati, piena di morbide forme, di colori luminosi, di accostamenti cromatici, di colore-sentimento. “L’inconoscenza del passato offre allo sguardo sognante di De Romanis sconfinamenti ambigui, in quanto l’arte è sfondo onirico e alba profetica. L’inconoscenza è uno specchio ideale che riflette e rivela immagini imperscrutabili perché fluttuanti” (Italo Mussa).
La tecnica pittorica del tutto personale adottata consente all’artista un’ampia formulazione della propria progettualità e del proprio onirismo; per trasparenze e piani che s’incuneano, per locuzioni formali, valori cromatici e sintesi trasgressive.
Straordinarie opere della produzione recente sono esposte in questo periodo in una mostra personale nel prestigioso Museo Archeologico di Anzio (ideazione e cura di Roberto Luciani, allestimento sperimentale di Giusi Canzoneri). Il contenuto poetico e lirico delle opere esposte è capace di dialogare mirabilmente con le sculture antiche presenti nel Museo, fondendosi in tutto l’impianto plastico, attuato con lucidità, come nel caso di Nove piccole cupole (2017), Rosso intenso di vita (2018), Verso la luce del cielo (2018).
Nella sua piena maturità il Maestro si rivela essere un pittore costruttivo sì, ma anche istintivo, capace di affidarsi ad una corrispondenza emozionale immediata ad echi e suggestioni e spessori di memoria che sempre più da vicino sembrano coinvolgerlo e impegnarlo. Memoria della linea d’orizzonte del cielo, degli stupori asiatici, delle oasi, dei reperti archeologici, delle donne che danzano o raccolgono acqua al ruscello, della sua infanzia.
La stesura cromatica è di una materia colorata, ricca ma univoca, scandita sul ritmo di toni attentamente calibrati, che si dispone per risalto in larghe sintesi di piani, definendo l’immagine per sagome volumetriche. Le pennellate dell’artista sono eteree e trasparenti come i sentimenti che lo muovono alla ricerca di una oggettività non reale. Così le atmosfere, vere o trasformate al tempo stesso da una specie di suggestione vergine e simbolica, trovano nei rossi, nei blu cobalto, nei verdi, nelle terre, e nei rossi pompeiani della sua tavolozza una dimensione cromatica. Spasimanti cieli al tramonto di un intenso turchese, passionali di rosso, ripiegati violetti, rendono la realtà con qualche concessione all’idillio.
Agostino trova nella mostra allestita ad Anzio, città imperiale che ha dato i natali agli imperatori Caligola e Nerone, un rapporto con l’antico e il passato, un rapporto diverso con lo spazio. Su questo spazio, dopo l’incanto cromatico senza tempo e di tutti i tempi, egli trasferisce la natura e rari abitanti, che certo lo attraggono, con comunicazione funzionale in senso stretto, diventando ipotesi, vis di altri messaggi: elementarità di volumi e segni aulici si sovrappongono, invenzioni del gesto si intrecciano, l’attualità si avvicina alla storia, i sommessi colori preparano le future sintesi plastiche che non appariranno come un sacrificio della fantasia a vantaggio dell’evidenza, ma come un concentrato della vissuta dialettica pittura-natura, col vantaggio di seminare nella sua spirituale ragione una luce universale.
De Romanis è un uomo che da molto tempo vive la sua esperienza di artista dentro linguaggi e tematiche tra le più rigorose e ardite. Scoprì presto il valore di taluni simboli che avrebbero in seguito contribuito al dispiegarsi della sua nuova poetica e approfondì le tecniche di sostegno per un discorso che non fosse semplicemente esercitazione ma metafisica del quotidiano.
Il suo retroterra culturale pieno di dubbi e rivoluzioni politiche, agirono silenziosamente sui suoi atteggiamenti inventivi, incidendo sui moduli di una ricerca che non si accentuava più del leggibile ma tendeva a realizzarsi dentro formule sempre più autonome e complesse.
Nello “sfogliare” la mostra allestita nella nel Museo Archeologico di Anzio, se ne conoscono i suoi lavori, e si capisce perché questo uomo sia stato amico di tanti artisti e critici: si vede che nulla ha tralasciato di cogliere, di assimilare da quegli intellettuali dovendo piegare talvolta l’ispirazione ai temi obbligati della tela, ma riuscendo sempre a realizzare in piena scientificità il suo discorso formale. La mostra odierna risulta quindi affascinante specchio della coscienza, capace di vedere col poi, il prima di un artista che progetta, traccia, incide, colora, reintela, fino a trovare l’armonia voluta.
La tecnica usata nella serie di quadri allestiti ad Anzio è essenzialmente l’olio su carta rintelata ma anche olio su tela, al fine di raggiungere toni vibranti, che uniti ad un uso corposo e anticonvenzionale del colore rende la superficie leggermente scabra, tuttavia con fluide pennellate e stesure di colore sobrie, delicate, non nette.
Questo importante evento è un riconoscimento doveroso ad un artista, il cui discorso è diventato comprensibile in varie parti del mondo, continuando a essere fatto di “colore e di luce”. Le opere esposte, determinando relazionalità tra museo, artista e spettatore, al di là del senso estetico, trasmettono e avviano, sebbene per metafora, processi di cambiamento che avvicinano le persone alimentando nuovi spazi di crescita culturale.
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