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27th
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Il bambino competente

Nei primi due anni di vita avviene qualcosa di molto interessante. Si è osservato, infatti, che vi è uno sviluppo cerebrale accelerato del cervello; il peso del cervello raggiunge la piena maturazione quando misura circa 1200-1300 gr e poiché al momento della nascita, in media, il cervello pesa circa 400-500 gr, nel corso dei primi due anni di vita, raggiungerà quasi il peso definitivo, superando i mille grammi.

 

Ma questi dati neurobiologici cosa centrano con le competenze del bambino?

In realtà centrano molto. Infatti già negli anni 70 si tentava di avvicinare il “bambino osservato”, (oggetto della procedura osservativa) al “bambino teorico”, che è il bambino delle teorie psicanalitiche. Ma nel periodo preverbale per capire qual è l’esperienza soggettiva del bimbo che non parla, si era costretti a fare delle inferenze non potendo entrare dentro alla testa del bambino.

Tuttavia ora non si pensa più come nel passato quando si riteneva che le esperienze sociali e psicologiche fossero completamente avulse dal funzionamento cerebrale.

Infatti, oggi, col termine “costruzione sociale del cervello umano”[1], s’intende che lo sviluppo e la maturazione del cervello è “dipendente dalle esperienze” ed è influenzato dalle “forze sociali”; in altri termini veniamo al mondo avendo iscritto nel proprio patrimonio genetico quello che viene definita un’aspettativa di esperienza. Pertanto sono necessarie anche delle esperienze sia di tipo affettivo, sia di tipo cognitivo e relazionale per consentire al cervello di svilupparsi adeguatamente.

Si tratta di esperienze fondamentali che il bambino ha nel corso dei primi due anni con le figure genitoriali, inoltre sono molto importanti le stimolazioni e le risposte che riceve da parte dell’ambiente.

Nel corso del primo anno, ed in particolare il secondo ed il terzo trimestre, ciò che assume un ruolo fondamentale sono le esperienze visive perché giocano un ruolo decisivo nello sviluppo sociale ed emozionale ed in particolare è rilevante la visione del volto materno con le sue espressioni emotive.

E’ utile ricordare che il contatto visivo rappresenta uno dei comportamenti fondamentali dell’attaccamento, cioè l’attaccamento del bambino alle figure genitoriali, viene mediato da vari comportamenti[2] ma fondamentalmente dallo scambio visivo. Questo fenomeno è qualcosa che distingue gli umani rispetto ai primati non umani, cioè è una caratteristica peculiare della specie umana per cui lo scambio visivo e la stimolazione che ne passa attraverso ha una funzione maturativa sul sistema nervoso centrale.

In realtà già la concezione del bambino, nella psicoanalisi classica di Freud (1905), teorizzava il legame funzionale del bambino con la madre, ma si trattava di una funzione nutritiva. La madre diventa il primo oggetto sessuale del bambino, cioè al momento della nutrizione si innesca un’esperienza di piacere sessuale.

Successivamente però la psicoanalisi inglese con la teoria delle relazioni oggettuali evidenziò l’importanza della relazione primaria con la madre (1935)[3] e sottolineò come l’esperienza reale, che il bambino fa della relazione con la madre contribuisce a costruire le difese rispetto al conflitto pulsionale e permette di integrare l’ambivalenza affettiva[4].

Più tardi[5] fu evidenziata l’importanza del bisogno biologico che il bambino ha di essere amato, un bisogno primario di amore anche rispetto ai bisogni di nutrizione. Poi ci fu Fairbairn[6] (1952) secondo il quale la motivazione primaria di un essere umano è la ricerca dell’oggetto, quindi la condizione del neonato alla nascita è quella di “dipendenza assoluta” da chi se ne prende cura.

Sulla stessa linea negli anni ’40 si svilupparono[7] studi basati sull’osservazione diretta; questi studi sottolinearono come la relazione primaria “madre/ambiente” permette tre sviluppi fondamentali:

–          sviluppo dell’integrazione delle esperienze sensoriali ed affettive;

–          sviluppo del senso di identità e dell’autonomia (personalizzazione);

–          sviluppo della capacità di relazionarsi con gli altri (realizzazione).

Poi negli anni ’50, tra il 1953 ed il 1965,  D.Winnicott definì la funzione materna come la funzione che, grazie alla capacità di rispondere ai bisogni fisici ed emotivi del bambino, garantisce l’esperienza di “continuità dell’essere”. E’ proprio questa esperienza di continuità che, secondo Winnicott, permette un vissuto di onnipotenza nella psiche infantile e quindi la crescita e la successiva autonomia dall’adulto man mano che va ad affrancarsi dalla madre.

Infine, nell’economia della nostra breve sintesi sulla “competenza del bambino”, tra il 1952 ed il 1969 fu la volta di Bowlby, psicanalista della scuola inglese, che nutrì un interesse particolare per una rifondazione della teoria dello sviluppo in termini più scientifici, ancorando, da una parte, la teoria dello sviluppo psicoanalitico all’osservazione diretta ed alla ricerca empirica fondata su dati basati sull’osservazione, ed dall’altra, connettendo l’interpretazione dello sviluppo del bambino anche a studi di tipo biologico che, in quel periodo, erano al centro dell’attenzione nella biologia contemporanea (etologia).

Attraverso questa impostazione Bowlby sviluppa l’ipotesi centrale della sua teoria[8] definendo il sistema comportamentale dell’attaccamento come un sistema che ha origine nella biologia del bambino; così come per altri piccoli della specie animale, si tratta di un sistema funzionale alla sicurezza e alla sopravvivenza del bambino grazie alla protezione offerta dall’adulto.

La sua teoria dello sviluppo evidenzia come il bambino non sia solo dipendente dalla madre, ma sia attivamente attaccato ad essa, perciò il neonato è competente nella ricerca delle relazioni. Il neonato non è più considerato un neonato chiuso in un mondo narcisistico, come era l’ipotesi di Freud e neppure dipendente in maniera simbiotica dalla madre, come era l’ipotesi di Winnicot.

Pertanto questa teoria dello sviluppo prevede come motivazione primaria nello sviluppo del bambino la motivazione di attaccamento, motivazione che è diversa sia dal bisogno di nutrizione, sia dalla ricerca di un oggetto sessuale e o di un piacere sessuale.

In questo modo la teoria di Bowlby rifiuta i concetti di energia e pulsione, poiché si collega all’approccio etologico e alla psicologia cognitiva ed, in particolare, al concetto di programmi mentali (rappresentazioni). Si tratta di programmi di comportamento del bambino che hanno le loro radici nella mappa genetica del neonato e si sviluppano grazie al formarsi progressivo nel corso dello sviluppo di schemi cognitivo-affettivi che regolano il comportamento.[9]

Quindi, in definitiva, il comportamento di attaccamento del bambino e quello della madre formano un sistema comportamentale integrato.

Idealmente la madre deve fornire una “base sicura” per il bambino, infatti il legame del bambino con la madre, o con chi si prende cura di lui[10], fornisce le basi per rappresentazioni mentali durevoli delle relazioni con le altre persone, cioè modelli operativi interni (vedi nota 9).

Da questa base sicura il bambino si muove con fiducia verso la vita, pertanto ciò che si sedimenta nell’esperienza del bambino, riguardo alla relazione con la madre, influenzerà il suo modo di porsi con l’ambiente e con la vita.

Concludiamo accennando al lavoro della psicologa Ainsworth[11] che, sulla scia delle intuizioni di Bolwby, ha individuato tre stili di attaccamento della diade madre/bambino[12] distinti in:

  1. Sicuro: dove la madre è riuscita a fornire al bambino una base sicura che implica un atteggiamento di fiducia nei confronti di se stesso, degli altri e della vita. Una base sicura corrisponde a un sentimento di essere degno di amore, cioè qualcuno ha investito sul bambino, qualcuno ha creato le condizioni perché possa diventare una persona ricca, capace, che può ambire a un progetto di benessere e di felicità.
  2. Ma vi sono anche esperienze non sempre positive e la Ainsworth ha individuato altri due stili di attaccamento che non sono sicuri (insicuro resistente e insicuro evitante), che rispecchiano due tipi di esperienze inadeguate, un’esperienza non ottimale nella relazione con la madre, due esperienze che lasciano una sorta di ferita o lasciano uno stato d’animo che non è completamente fiducioso o positivo nei confronti di sé e nei confronti degli altri:

–          Il bambino Insicuro-Resistente è un bambino che è ambivalente (ansioso, preoccupato di perdere la relazione con l’altro), insicuro sulla propria capacità di generare, di instaurare di trovare una relazione ottimale con le altre persone, in particolare con il caregiver.

–          Il bambino  Insicuro-Evitante è un bambino che per una serie di motivi[13] nega il bisogno della madre, nega il proprio bisogno di essere accolto, di essere riconosciuto, di essere rassicurato. Si tratta di un bambino che affronta e gestisce la propria vulnerabilità, la propria insicurezza, evitando per quanto possibile la relazione con gli altri o negando i propri bisogni di riconoscimento di affetto da parte delle altre persone.

 


[1] Termine coniato nel 1995 da L. Eisenberg, USA (1922-2009), psichiatra

[2] Dal contatto fisico, dalla prensione, dalla suzione

[3] In particolare la M. Klein psicoanalista austriaco-britannica (1982-1960).

[4] Compresenza di emozioni sia positive che negative nei confronti di uno stesso oggetto

[5] Balint psicoanalista ungherese (1896-1970)

[6] William R.D. Fairbairn, (1889-1964) medico e psicoanalista scozzese, padre della teoria delle relazioni oggettuali, allievo di M. Klein.

[7] D.Winnicot, pediatra e psicoanalista inglese (1896-1971)

[8] Nel 1969 pubblica il primo volume della sua trilogia sull’attaccamento del bambino alla madre

[9] si è ipotizzata, tra il primo ed il secondo anno, di vita del bambino la formazione di Modelli Operativi Interni (MOI), Si tratta di rappresentazioni mentali che regolano l’accesso alle informazioni ed il loro recupero nella memoria, inoltre orientano le aspettative, le emozioni ed i comportamenti interpersonali.

[10] Caregiver

[11] Mary Dinsmore Salter Ainsworth, psicologa statunitense (1913-1999)

[12] Aveva iniziato Winnicot a teorizzare su questa idea che non esiste il bambino e basta, ma la diade madre – bambino, cioè non si può considerare il bambino isolato nè la madre isolata ossia due pezzi distaccati che entrano in interazione l’uno con l’altro ma in realtà è un sistema che sta in interazione ed è la diade, la quale mostra capacità di auto/etero regolazione.

[13] Per es. la trascuratezza da parte della madre



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