Israel Galvan al Teatro Palladio di Roma – 13 novembre 2009
Alle 19,30 io e Simona abbiamo parcheggiato alla stazione metropolitana del Policlinico, quindi ci siamo infilati nel metrò fino alla fermata Garbatella. Breve camminata ammirando qualche scorcio del classico quartiere romano reso più suggestivo dallo sfondo notturno di una serata mite di novembre
e dal colore quasi ambrato dei lampioni, avvolgendo così anche l’esterno delle case della città di quelle intimità tipica del focolare domestico. Alla fine siamo arrivati nella piazza Romano Bartolomeo alle 20 in punto, al desk “accrediti ingressi” del Teatro Palladio abbiamo ritirato i biglietti, poi un piccolo snack al bar ed alle 20,50 eravamo seduti in platea, con il teatro strapieno e con la voce dello speaker fuori campo che invitava a spegnere i cellulari perché lo spettacolo stava per avere inizio. Circa 80 minuti senza intervallo.
Appena si spengono tutte le luci si fa un silenzio così profondo quasi palpabile. I primi venti minuti la cantante si siede sulla destra del palcoscenico di fronte ad un piccolo tavolino e battendo con la mano sul tavolo scandisce il ritmo ed intona le sue “letras”. Tipico accento andaluso, stento a capire le parole, ma si sa, il flamenco racconta spesso la tragedia della vita, in questo caso mi sembra che la donna si lamenta del marito che la preferisce ad un’altra donna e lei si sente ovviamente tradita anche per aver faticato tutta una vita ed aver allevato un figlio. Alla fine si alza incede verso il centro della scena tirandosi dietro l’unico fascio di luce che dall’alto squarcia il buio del teatro macchiando di piccole ombre il volto della cantante, aumentando così il patos della tragedia e preparando l’assolo finale di disperazione.
Dopo un lungo applauso entra finalmente Galvan, anche qui sono circa venti minuti di spettacolo, ma questa volta di danza. Tutto il corpo oscilla segnando il ritmo incalzante non solo con i tacchi metallici delle scarpe, ma anche con le dita con la bocca, con la fronte. Un incessante volteggiare di braccia e di gambe che sferzano l’aria riempiendo di contenuto tutto lo spazio scenico appositamente progettato molto scarno (una sedia, un tavolo, un pianoforte e drappeggi neri sullo sfondo). Anche le mani battono il ritmo sulle cosce vibranti per l’ancheggiare e roteare del bacino. Il tutto con precisione ed alternanza di mobilità ed d’improvvise forme corporee immobili. La destrutturazione del flamenco immaginata da Galvan continua e dopo il canto ed il ballo arriva la musica con gli assoli melodici (falsetas) che invece di essere suonati con la chitarra vengono prodotti con un pianoforte a coda.
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