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14th
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S. Bernardo e Dante

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ‘ mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

 

che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate.

Così prega San Bernardo di Chiaravalle, che è l’ultimo aiuto che riceve Dante nel suo viaggio. Attraverso questa preghiera, Dante è affidato direttamente alla Madonna, alla Regina del Cielo. Si sta concludendo il viaggio di Dante, attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso: di qui a breve egli farà l’esperienza diretta di Dio.  Questo viaggio ha un significato importante: l’uomo del Medioevo è l’uomo del viaggio, si considera cioè un viatore, un pellegrino, e infatti quelle che possiamo definire le tre grandi epopee del Medioevo (Dante è l’interprete più alto del Medioevo) sono appunto il pellegrinaggio (che poteva durare anche parte della vita) verso Roma, Gerusalemme e Compostela, la ricerca del Graal e la Divina Commedia. L’uomo si percepisce come un viandante in cerca della dimora, come un pellegrino dell’Assoluto, e questo ci aiuta a comprendere una verità su noi stessi: noi abbiamo una domanda e un desiderio dentro, andiamo verso una pienezza. Quindi la proposta di Dante, valida per ogni uomo e quindi anche per il nostro tempo, è quella di aiutarci a considerarci come uomini alla ricerca, uomini in viaggio verso la Pienezza o, se si vuole, verso la felicità o verso l’Assoluto, verso la luce. Tutto questo non nei termini dello sconforto di chi non ha una patria ed è in cerca di una patria che non conosce, ma nei termini della speranza di chi ha già una pregustazione della patria verso cui tende, sa già con chi camminare e verso dove. Dunque la posizione di Dante è una posizione ricca di speranza. Che cosa significa allora la proposta di Dante sull’uomo viatore per il nostro tempo? Suona certamente come una contestazione dell’Occidente sazio e disperato, cioè di quell’Occidente di cui facciamo parte anche noi che cerca la pienezza delle cose e non la trova, dunque è sazio di cose ma disperato, perché privo di autentica speranza. Rappresenta anche una contestazione di ogni forma di esistenzialismo tragico, secondo cui noi saremmo perennemente alla ricerca, ma senza la possibilità reale di trovare l’oggetto che cerchiamo (una specie di ricerca del Sacro Graal senza il Graal). Dante invece ci offre un’interpretazione bellissima della vita come avventura. Quest’avventura, però, non è un’avventura banale, ma è un’avventura degna di essere raccontata, e raccontata attraverso la ragione e la poesia. Infatti l’architettura della Divina Commedia è un’architettura da cattedrale, dove troviamo tutti gli approfondimenti della ragione e tutti i luoghi della poesia. San Bernardo non è solo San Bernardo, ma è anche il simbolo di una dimensione mistica. Dante passa dunque dalle cure di Beatrice a quelle del “Cavaliere di Maria”, come egli definisce San Bernardo. Questo perché Beatrice rappresenta la riflessione amorosa di Dio, cioè quella che è, o talvolta dovrebbe essere, la teologia, mentre San Bernardo rappresenta l’esperienza di Dio, la contemplazione diretta, cioè la mistica. Lì dov’è arrivato San Bernardo non basta più la riflessione amorosa, la meditazione interiore, ma è necessaria l’esperienza amorosa.San Bernardo di Chiaravalle nasce nel 1090 e muore nel 1153. È un grande contemplativo. In una delle fonti sulla vita di questo grande santo e costruttore dell’Europa peraltro, si racconta il suo fermarsi dinanzi a un’edicola con un’immagine della Madonna e del suo saluto, “Ave Maria”, e dell’animarsi dell’immagine della Madonna che rispose “Ave, Bernarde”. Attraverso questo episodio si vuole far intendere che San Bernardo fa l’esperienza del mondo “altro” e così può essere per gli altri una finestra sull’Eterno. Potremmo pensare che San Bernardo sia una persona tutta dedita a queste esperienze e che quasi eviti il contatto con la storia, e invece non è così: fonda 68 monasteri cistercensi in Inghilterra, Svezia, Sicilia, Libia; bandisce la seconda Crociata per la liberazione del Santo Sepolcro; spiritualizza la cavalleria, e sarà lui a scrivere la regola per l’ordine dei Templari; si adopera per la pacificazione fra i sovrani; è consigliere dei papi e accanto ai monasteri istituisce scuole di agricoltura e di manifatture tessili; è poi un grande scrittore e teologo. È difficile trovare una persona che in pochi decenni (1090-1153, 73 anni) riesca a fare tutto questo, ed è la stessa persona delle notti misteriose, che parla con il Signore e con la Madonna. La contemplazione non è dunque cosa diversa dall’azione, ma è un modo più profondo di agire. Questo contemplativo è uno dei costruttori dell’Europa, e riesce in cose in cui gli uomini d’azione privi della dimensione contemplativa non riescono. Si pensi a quanto è durato il grande impero del Comunismo: settant’anni, a fronte dei mille anni di durata dell’opera di San Bernardo. San Bernardo è dunque il simbolo dell’esperienza dell’amore di Dio, cioè della mistica, ed è lui che pronuncia queste parole. La preghiera che abbiamo letto viene introdotta dall’ultimo verso del canto precedente: “E cominciò questa santa orazione” Passando a un esame del testo, anzitutto vediamo l’invocazione iniziale “Vergine madre”. San Bernardo è un uomo antico, che conosce che cosa è accaduto nei secoli e che riflette sulle vicende umane. Bisogna comprendere questo: fin quando non è comparsa Maria Santissima, le grandi civiltà del passato hanno onorato la donna o come vergine o come madre. Nella “pienezza dei tempi”, come dice San Paolo nella Lettera ai Galati, ecco che compare la Vergine Madre, Maria, che unisce quindi in sé i due grandi percorsi delle virtù antiche: è vergine e madre. L’appellativo “vergine madre” usato da San Bernardo di Chiaravalle, ha molto da dire al nostro tempo, perché se attualmente esiste un percorso antagonista a quello che conduce al regno di Dio, un percorso per così dire dell’Anticristo, funzionale a questa prospettiva è il tentativo di realizzare nella donna il contrario della “vergine madre”, cioè la prostituta sterile. I primi versi di lode alla Madonna di San Bernardo ci mostrano delle antitesi: “vergine madre”, “figlia del tuo figlio” (perché figlia di Dio e madre del Verbo fatto carne), “umile ed alta”, che introduce all’antitesi successiva “il suo Fattore non disdegnò di farsi sua fattura” e ad un ragionamento tipicamente evangelico, che è quello del paradosso. Il Vangelo non contesta la ragione, la conferma, perché la ragione è la luce naturale che Dio ha dato all’uomo per conoscere il Vero. Il Cattolicesimo esalta la ragione ed ha sempre considerato cattiva teologia quella che svaluta la ragione, ma la ragione deve essere aperta al mistero: la ricerca umana, cioè, giunge fino al limite possibile alla ragione, ma poi non ha di fronte un muro, ma la contemplazione di ciò che, senza negare la ragione, va oltre la ragione. In questa contemplazione dell’ulteriorità che non contraddice la ragione ma la supera, c’è il paradosso. Tutto il Vangelo è un paradosso: “Così gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi” (Mt. 20, 16), “Se uno vuol essere il primo, sarà l’ultimo di tutti e il servitore di tutti” (Mc. 9, 34), “il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire” (Mt. 20, 28).  È esattamente questo il senso della frase di San Bernardo di Chiaravalle “Umile ed alta”: “umile” deriva da humus (terra), e l’ossimoro è con “alta”. Questo paradosso è tipicamente evangelico, ed è un’altra controproposta di vita alla civiltà dell’apparenza, del potere, dell’io. Non è forse vero che chi si vanta, quand’anche dicesse cose vere di sé, dà fastidio? Perché noi siamo fatti per il bene, per il bello, per il vero, e ce ne accorgiamo se una persona testimonia solo se stessa. Altra cosa importante è questa: al vertice, poco prima di Dio, c’è una donna. Nell’indagarela dimensione del femminile, Dante Alighieri è un maestro insuperabile. È fondamentale l’importanza di Beatrice nella vita di Dante, nel cammino di Dante, nella poetica di Dante. A questo punto, dalle mani di Beatrice, egli passa a quelle di un grande uomo, San Bernardo di Chiaravalle, il quale lo consegna nuovamente al femminile. Questo perché il femminile, insieme con il maschile, è necessario per la comprensione di Dio: il femminile e il maschile sono due sentieri, e sono necessari ambedue per arrivare a Dio. Non solo il Verbo si è fatto carne attraverso una donna, ma questa donna è strettamente unita a Gesù in tutto il suo ministero di vita, di morte e resurrezione. In un certo senso, il femminile è necessario per percorrere la strada della vita, visto che la vita è quel viaggio attraverso l’Assoluto. Gesù ha manifestato tutto questo anche attraverso le parabole: parabola al maschile è per esempio quella della pecorella smarrita (Lc. 15, 1-7), subito seguita da una parabola al femminile, quella della dramma perduta (Lc. 15, 8-10); una delle parabole del Regno (quella del lievito) è al femminile (Mt. 13, 33), quella del re in guerra è al maschile (Lc. 14, 31-33). C’è un maschile e un femminile addirittura per far capire il cuore di Dio, perché quando si parla di misericordia e di amore vi è una dimensione maschile, che è quella della fedeltà rappresentata nel Cantico dei Cantici dal gesto tipicamente virile di porre una mano sulla spalla, e contemporaneamente il verso del Benedictus “bontà misericordiosa” (Lc. 1, 78) traduce l’espressione “utero di misericordia” o “grembo che si scioglie”, ed è un’espressione di femminilità. Dunque il femminile e il maschile sono manifestazioni di Dio, perché Dio è la sorgente di ogni dono e di ogni creatura. E Dante ricorda l’importanza del femminile nella ascensione verso Dio, cioè nel cammino della vita. A questo proposito, il verso “Così è germinato questo fiore” si riferisce alla Rosa dei Beati, ma anche al Paradiso. Spiccano termini quali “ventre” (ripreso dall’Ave Maria), “amore”, “caldo”, “pace”, “fiore”, che trasmettono grande pace. Si comprende allora perché all’inizio della Sacra Scrittura (e Dante la conosce benissimo, come i Padri e Tommaso d’Aquino), come conseguenza del peccato originale, si insiste sulla frase simbolica “Con dolore partorirai i tuoi figli”. Infatti, il male porta con sé sempre delle contraddizioni, e tutto ciò somiglia ai dolori del parto (con dolore e fatica). Questo  però non era nel disegno originario di Dio. Tutta la logica di Dio si manifesta invece nella pace, che porta alla germinazione del fiore. Dove si manifesta pienamente la volontà di Dio accade questo. Invece, la violenza, la contraddizione, il travaglio sono segni di un mondo e di un’esistenza che non erano esattamente come li aveva pensati Dio (il mysterium iniquitatis). Tuttavia, quando il male sarà sconfitto, tutto sarà armonia e Paradiso. Altra cosa importante è la soavità come segno rivelatore del progetto di Dio che è presente anche nella nostra esistenza: chi si avvicina a Dio ha il segno dell’armonia interiore; “Io vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io ve la do, non come la dà il mondo” (Gv. 14, 27). La pace secondo il mondo si verifica quando tutto va bene, ma basta un mal di denti e la si perde. Il Signore invece dà una pace che non si perde mai. Questa terzina, però, fa anche comprendere una delle caratteristiche dell’uomo medievale, e ovviamente di Dante, che è il più grande interprete del Medioevo: il simbolo. Il simbolo è una sorta di percorso che l’uomo può compiere per non rimanere nella prigionia del non senso. La bandiera vittoriosa che garrisce al vento, quella in cui eventualmente ci dovessimo riconoscere, dice tante cose: non è solo stoffa colorata, e non è per una stoffa colorata che qualcuno ha dato la vita, ma per ciò che significa. Il simbolo è assolutamente necessario e l’uomo deve rimanere uomo del simbolo. Invece, un approccio meramente materialistico porta ad un’analisi estremamente riduttiva di una stessa realtà: una bandiera è vista solo in termini di stoffe e di colori. Dunque si può dire che la poetica di Dante, ma anche quella di tutto il Dolce Stilnovo, è una modalità di vedere il corpo come un linguaggio, cosa che va necessariamente recuperata, approfondita, riproposta oggi, dopo la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Si parla della Madonna (termine medioevale anche questo) come “meridiana face”, luce di sole splendente, come “di speranza fontana vivace” per gli uomini sulla terra. Interessante è l’aggettivo “vivace”: caratteristica dell’acqua zampillante è che non è sempre uguale, ma si ravviva sempre, non si ripete mai ma è continuamente nuova. Così la speranza nella Madonna è sempre una fonte inesauribile di sorprese nella vita.

Il termine “donna”, messo in evidenza, è lo ritroviamo nella Sacra Scrittura in tre grandi occasioni: a Cana di Galilea, in risposta a Maria (“Che cosa c’è tra me e te, o donna?”, Gv. 2,4), e ricomparirà sulle labbra del Redentore crocifisso quando consegnerà la madre a Giovanni e Giovanni alla madre (“Donna, ecco tuo figlio”, Gv. 19, 26). Nel libro della Genesi la Donna è colei che avrebbe generato la stirpe destinata a schiacciare la testa al serpente, e nell’Apocalisse la Donna vestita di sole con la luna sotto i piedi e la corona di stelle ritorna come simbolo del popolo messianico della Chiesa, ma anche della Madonna che è suo membro eletto. “La tua benignità non pur soccorre, /a chi dimanda, ma molte fiate /liberamente al dimandar precorre”. È proprio il caso di Cana di Galilea, in cui emerge la dimensione dell’attenzione e della premura della Madonna nella vita di ogni suo figlio: Maria ottiene addirittura che sia anticipata l’ora della manifestazione di Gesù. Spontaneamente la Madonna previene addirittura la richiesta, perché è come la luce del sole nel mezzogiorno d’amore.

“Qual vuol grazia, ed a te non ricorre, / Sua disianza vuol volar sanz’ali”. Su questa “disianza” bisogna dire qualche cosa: il desiderio è la domanda di felicità, immortalità, amore e conoscenza insita nell’uomo come una carta d’identità. Questo desiderio, dunque, ha la sua radice e il suo compimento in Dio, ma per giungere a Dio è necessario anche il mistero del femminile, la grande donna, la Madonna, perché senza la donna l’uomo è monco. La preghiera si conclude con questa sorta di abbozzo di complimenti che sono diventati poi le litanie nella storia della spiritualità. “Misericordia” è utilizzato nel senso letterale, miseris cor dare, “dare il cuore ai poveri”; “pietà” è sia la pietas nei confronti di Dio, sia la compassione nei nostri confronti; “magnificenza” sottintende la lungimiranza (“cose grandi”), perché la Madonna è quella che vede Dio, ma ha anche un’idea grande della vita di ciascuno di noi. San Tommaso d’Aquino dice che “il bene spirituale di una sola persona vale più dell’Universo intero”. Questo vuol dire che l’universo interiore che a noi appare piccolo è in realtà capace di comprendere l’Universo, ma l’Universo non riesce a comprendere uno solo di noi. La Madonna vuole fare dunque cose grandi con ciascuno di noi, quella stessa grandezza che ha sintetizzato in lei tutto ciò che nelle creature c’è di buono. A questo punto ci dobbiamo fermare non senza dire una cosa suggestiva. Qui finisce la preghiera alla Madonna e si comprende anche un altro aspetto. Viene da chiedersi: dov’è lo sposo di Maria, essendo ella Vergine e Madre, ma anche sposa e consacrata? Di San Giuseppe si dice che sia l’uomo del silenzio, perché i Vangeli che parlano di lui (Matteo e Luca) non ne riportano espressioni verbali. Dante conosce benissimo la meditazione su San Giuseppe, dunque con le iniziali dei versi successivi (19, 22, 25, 28, 31, 34, 37) formal’acrostico IOSEP AV, il saluto a Giuseppe come lo pronunciavano i medievali. È la presenza nascosta di Giuseppe accanto a Maria.

Bibliografia minima

Inos Biffi, La poesia e la grazia nella Commedia di Dante, Jaca Book, Milano 1999 Livi François, Dante e la teologia, Leonardo da Vinci, Roma 2008



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