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Lo storico dell’imperatore

Tito Livio: Chi era costui? Risposta: “Autore tra i più illustri per eloquenza e attendibilità, (che)esaltò con tanto entusiasmo Pompeo che Augusto lo chiamava pompeiano, ma ciò non guasto la loro amicizia”.[1]

 

Dunque Livio era amico di Cesare Ottaviano Augusto, primo imperatore di Roma. Sì, il primo imperatore di Roma, al cui comando il mondo, allora noto, conobbe un periodo di pace denominata proprio “Pax Augusta”, infatti dopo tanti conflitti civili, rivolgimenti e lutti, la fortissima aspirazione alla pace e all’ordine predispose gli animi all’accettazione di un nuovo assetto dello Stato, e proprio sul rinnovato clima di pace si fondò l’ideologia del principato come monarchia.

E’ vero, Ottaviano Augusto riorganizzò lo stato cominciando dall’esercito e dalla classe senatoria, fondò l’ordine equestre per aiutare i senatori nelle mansioni politico-amministrative, sviluppò l’edilizia, i trasporti e avviò una riforma amministrativa dividendo l’impero in due categorie di province (quelle imperiali e quelle senatorie), ma, tra le grandi intuizioni del primo imperatore di Roma, non possiamo tacere quella di voler fortemente sviluppare la cultura, infatti non solo fece aprire le prime biblioteche pubbliche, secondo il progetto che il suo prozio Giulio Cesare non aveva avuto il tempo di attuare, ma diede un grande impulso alle arti figurative (specialmente la scultura) e l’architettura (p.e. l’Ara Pacis[2], il Pantheon[3] e il foro di Augusto).

Proprio in questa eccellente azione di governo Ottaviano Augusto cercò ed ottenne la cooperazione degli intellettuali[4]. Fu cosi che i grandi scrittori dell’età augustea accolsero nelle loro opera temi tipici della politica imperiale: innanzitutto il bene prezioso della pace, poi l’esaltazione del principato perché favoriva la concordia tra i cittadini e la prosperità, inoltre di non secondaria importanza era il tema del ripristino degli antichi costumi genuinamente romani ristabilendo i valori morali e religiosi su cui si fondava la grandezza di Roma[5], nonché il culto della patria, degli dei e della famiglia. Ma la letteratura augustea affrontò anche argomenti più profondi come l’amore, il dolore, il senso della vita e della morte[6].

In questa cornice storico-culturale si situa il nostro Tito Livio[7], originario di Padova (dove nacque nel 59 a.C. e morì nel 17 a.C.), città di cui erano proverbiali i costumi austeri e le tendenze conservatrici.

La sua famiglia apparteneva sicuramente ad una classe agiata perché gli permise di dedicarsi per tutta la vita all’attività letteraria. Solo da adulto, però, intorno ai trenta anni si presume che si sia trasferito a Roma.

Compose e pubblicò il suo I libro degli “Ab urbe condita” tra il 27 e il 25 a.C. e questa pubblicazione probabilmente lo rese notorio, come storico, ad Augusto.

Il titolo esatto dell’opera intera è Ab urbe condita libri CXLII (centum quadraginta duo) si tratta del titolo derivato dai codici con cui l’autore dell’opera Tito Livio indica quella che sarà la suddivisione della storia della fondazione di Roma in annales o libri. L’opera è nota anche con il titolo Historiae.

Quindi, l’opera comprendeva in origine 142 libri di cui si sono conservati i libri 1–10 e 21–45 (l’ultimo mutilo) e scarsi frammenti degli altri (celebri quelli relativi alla morte di Cicerone col giudizio di Livio sull’oratore, tramandati da Seneca il vecchio).

Le fonti privilegiate da Livio sono le opere storiografiche dei suoi predecessori. Quelle utilizzate da Livio per la prima decade, contenente la storia più antica di Roma, furono gli annalisti, specialmente quelli meno antichi[8], mentre per le decadi successive, in cui veniva narrata l’espansione di Roma in Oriente, agli annalisti romani affiancò il grande storico greco Polibio, dal quale Livio attinse soprattutto la visione unitaria del mondo mediterraneo.

Livio assegna dichiaratamente alla propria opera una funzione didascalica.  Infatti Lo stile dell’opera è semplice e chiaro: ciò rese l’opera facilmente accessibile, e contribuì alla sua diffusione e divenne, ben presto, un testo di uso comune nelle scuole per l’apprendimento del latino, ma suscitò anche tanto interesse da essere successivamente ampliata a più riprese.

Tuttavia Livio non sempre attua un attento vaglio critico e scientifico delle proprie fonti e non tenta di colmare le lacune della tradizione storiografica con il ricorso a documentazione di altro genere, (p.e manoscritti e/o iscrizioni). Inoltre l’impostazione “pompeiana” di Livio fece sì che la sua opera non fosse utilizzata come fonte storiografica nella prima età imperiale.

In definitiva gli Ab urbe condita sono un monumento alla gloria e alla potenza di Roma, esaltazione del nuovo ordine imperiale dovuto all’imperatore Augusto; emergono tra le righe le virtù civiche tipicamente romane, in una prospettiva politico/morale dove la storia è concepita quale «magistra vitae».

Durante il Medioevo, e soprattutto a partire dal Petrarca, costituirono una delle fonti decisive, se non la principale, per la conoscenza di usi, costumi, riti, istituzioni, in generale vicende dell’antica Roma.

Sebbene nel rinascimento e nell’età barocca fu preferito a Tacito (I-II secolo d.C.) la lunga fama di attendibilità dell’opera liviana fu di nuovo osannata dagli intellettuali illuministi del settecento che elessero i discorsi dei personaggi degli “ab urbe condita libri” a modello di eloquenza e riproposero gli episodi come connotati da spirito anti tirannico e repubblicano.

Chiudiamo questi brevi cenni sullo storico dell’imperatore Augusto con un passo tratto dal libro XXX (33, 5) che testimonia come Tito Livio aveva una visione universale della storia, aveva un’idea precisa del ruolo di Roma nelle vicende che riguardavano l’umanità ed aveva soprattutto un profondo senso morale tanto che i suoi annali celebrano il dominio di Roma come necessario perché era il solo che poteva garantire la libertà dei popoli:

Vi era al mondo un popolo che a sue spese, affrontando fatiche e pericoli, faceva la guerra per la libertà altrui, […] attraversava i mari perché sulla terra  non esistesse un dominio ingiusto, ma dappertutto dominassero il diritto, la giustizia, la legge.

[sintesi elaborata sul testo: L.Pasquariello, G.Garbarino, Letteratura Latina, Paravia. 2008]


[1] Tacito, Annales, IV, 34, 6

[2] L’Ara Pacis Augustae è un altare (altare della pace augustea) dedicato da Augusto nel 9 a.C. alla Pace nell’età augustea, intesa come dea romana, e posto in una zona del Campo Marzio consacrata alla celebrazione delle vittorie, luogo emblematico perché posto a un miglio (1.472 m) dal pomerium, limite della città dove il console di ritorno da una spedizione militare perdeva i poteri ad essa relativi (imperium militiae) e rientrava in possesso dei propri poteri civili (imperium domi). Questo monumento rappresenta una delle più significative testimonianze dell’arte augustea ed intende simboleggiare la pace e la prosperità raggiunte come risultato della Pax Romana.

[3] Il Pantheon è un edificio di Roma antica, costruito come tempio dedicato alle divinità dell’Olimpo. Gli abitanti di Roma lo chiamano amichevolmente la Rotonna, o Ritonna, da cui anche il nome della piazza antistante. Fu fatto ricostruire dall’imperatore Adriano tra il 118 e il 128 d.C., dopo che gli incendi del 80 e del 110 d.C. avevano danneggiato la costruzione precedente di età augustea.

[4]Il Mecenate eponimo fu un influente consigliere dell’imperatore romano Augusto, che formò un circolo di intellettuali e poeti che sostenne nella loro produzione artistica. Da lui prende nome il mecenatismo: sostegno ad attività artistiche e culturali e, più nello specifico, nei confronti degli stessi artisti coinvolti in tali attività. Chi sostiene queste attività è detto mecenate (dal nome di Gaio Cilnio Mecenate, 68 a.C. – 8 d.C.).

[5] Mos maiorum: pietas, fides, libertas, concordia, iustitia, prudentia, frugalitas, pudicitia, gravitas.

[6] Del resto la tendenza alla riflessione ed al ripiegamento sull’interiorità e sui sentimenti individuali era stata propria dei poeti della generazione precedente.

[7] Il cognome è ignoto.

[8] Come Claudio Quadrigario, Valerio Anziate, Elio Tuberone e Licinio Macro (per alcune descrizioni particolari tenne forse presente addirittura il poema epico di Ennio).



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