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Dall’amor cortese al dolce stil novo

Premessa

Per poter afferrare nelle sue grandi linee il processo di trasposizione della lingua francese del XII secolo alla lingua italiana del XIII secolo, bisogna far riferimento al concetto di “amor cortese”, un termine creato dal critico francese Gaston Paris nel 1883

per indicare la concezione filosofica, letteraria e sentimentale del concetto dell’amore, all’epoca del trobar (cioè “cantare, comporre in modo difficile”) dei poeti nelle corti provenzali, e si basa sul concetto che solo chi ama possiede un cuore nobile.

Il concetto di amor cortese appare per la prima volta nel corso del XII secolo nella poesia dei lirici provenzali nel sud della Francia, che scrivono in lingua d’oc, tuttavia avrà fortuna anche nella letteratura della Francia del nord e sopravvivrà nel tempo attraverso lo stile del “dolce stil novo” dantesco.

L’amor cortese del trobador è un sentimento capace di nobilitare e affinare l’uomo.
Nasce come un’esperienza ambivalente fondata sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Tale “ambivalenza” è detta mezura, cioè la “misura”, la giusta distanza tra sofferenza e piacere, tra angoscia ed esaltazione. Per questa ragione, anche, esso non può realizzarsi dentro il matrimonio, e l’amor cortese è quindi adultero per definizione.

Gli elementi caratterizzanti l’amor cortese sono:

  • Il culto della donna, vista dall’amante come un essere sublime, irraggiungibile. In certi casi anche divino.
  • L’inferiorità dell’uomo rispetto alla donna amata, l’amante si sottomette completamente e obbedisce alle volontà della donna.
  • L’amore inappagato, cioè l’amante non chiede nulla in cambio dei suoi servigi. Non si tratta però di amore spirituale, platonico, anzi si presenta con note sensuali.
  • La gioia, o meglio una forma di ebbrezza ed esaltazione, di pienezza vitale, formata dall’amore impossibile, che però genera insieme anche sofferenza, tormento.
  • L’amore adultero, che si svolge al di fuori del vincolo coniugale: addirittura, si teorizza che nel matrimonio non possa esistere veramente “amor fino”. Il matrimonio, infatti, spesso era un contratto stipulato per ragioni dinastiche o economiche. Il carattere adultero dell’amore esige il segreto, che tuteli l’onore della donna: per questo il suo nome non viene mai pronunciato dai poeti.
  • Il conflitto tra amore e religione, scaturito dal culto per la donna divinizzata con il culto per Dio.

Poiché a quel tempo il matrimonio aveva poco a che fare con l’amore, l’amor cortese era anche un modo per i nobili di esprimere l’amore non trovato nel loro matrimonio. Gli “amanti” nel contesto dell’amor cortese non facevano riferimento al sesso, ma piuttosto all’agire emotivo. Questi “amanti” avevano brevi appuntamenti in segreto, che si intensificavano mentalmente, ma mai fisicamente. In sintesi le regole dell’amor cortese vennero codificate in quell’opera altamente influente del tardo secolo XII che è il De Amore di Andrea Cappellano[1], dove si legge per es. che…

– “il matrimonio non è una vera scusa per non amare“,

– “colui che non è geloso non può amare“,

– “nessuno può essere legato a un doppio amore” e

– “quando si rende pubblico un amore raramente dura“.

La Scuola Siciliana

In Italia, la Scuola Siciliana si sviluppò tra il 1230 ed il 1250 presso la corte itinerante di Federico II di Svevia (dinastia degli Hohenstaufen), imperatore del Sacro Romano Impero (1211), re di Sicilia (1198) e re di Gerusalemme (1225). Egli stabilì la sua corte in Sicilia, luogo d’incontro e fusione di molte culture per la sua centralità nel Mediterraneo, dove creò una scuola di poeti ed intellettuali che ruotavano intorno alla sua figura, ed erano parte integrante della sua corte.

La lingua in cui i documenti della Scuola Siciliana sono espressi è il “Siciliano Illustre”, è una lingua nobilitata dal continuo raffronto con le lingue auliche del tempo: il latino ed il provenzale (lingua d’oc, diversa dal francese che si chiama invece lingua d’oil).

I poeti Siciliani contribuirono in modo significativo al patrimonio letterario italiano. Federico II, uomo di grande cultura anche linguistica, intendeva avvalersi di ogni possibile mezzo per stabilire la sua supremazia sull’Italia, e in Europa. A questo fine attuò una politica strumentale, anche nel campo culturale. Con la Scuola Siciliana egli volle creare una nuova poesia che fosse laica, e si potesse così contrapporre al predominio culturale che la Chiesa aveva nel periodo, non municipale, da opporsi alla produzione poetica comunale (l’imperatore era in lotta con i comuni) e aristocratica, che ruotasse, cioè, intorno alla sua figura.

I poeti di questa corrente letteraria appartenevano all’alta borghesia, ed erano tutti funzionari di corte, o burocrati, che lavoravano presso la corte di Federico. Importante rilevare che tutti erano impegnati in attività e funzioni di organizzazione, di cancelleria, di amministrazione. La produzione poetica era riservata alla libertà dello spirito e non costituiva un lavoro o una funzione. In questo senso, la Scuola Siciliana fu un tentativo di realizzare una cultura universale e spirituale, nel rispetto delle religioni, ma senza condizionamenti né, tanto meno, subordinazione. Non a caso uno dei castelli più importanti della casa di Svevia (Castello di Weibling) ha il nome da cui deriva l’etimologia del termine “ghibellino“[2].

Questo gruppo di poeti scrivevano in volgare meridionale. Tra i maggiori esponenti della scuola siciliana furono: Giacomo da Lentini, considerato anche il caposcuola, Odo delle Colonne, Guido delle Colonne, Pier della Vigna.

Alla scuola poetica siciliana ed al suo caposcuola si deve l’invenzione di una nuova metrica, denominata il sonetto. Il sonetto è un breve componimento poetico, tipico soprattutto della letteratura italiana, il cui nome deriva dal provenzale sonet (suono, melodia) che si riferiva in genere a una canzone con l’accompagnamento della musica. Nella sua forma tipica, è composto da quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine (“fronte”) a rima alternata o incrociata e in due terzine (“sirma”) a rima varia. I componimenti dei poeti della Scuola si datano nel ventennio compreso tra il 1230 ed il 1250, con un chiaro influsso sulla produzione culturale delle città ghibelline dell’Italia centrale (come per esempio Bologna, città dove visse Guido Guinizzelli, padre del Dolce Stil Novo, influenzato dalla scuola Siciliana). Riportiamo a livello esemplificativo un testo poetico di Jacopo da Lentini, in cui traspaiono da una parte i riferimenti ai contenuti dell’amor cortese e dall’altra lo stile aulico d’oltre alpe.

IO M’AGGIO POSTO IN CORE …

Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’aggio audito dire,
u’ si mantien sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
chè sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ‘l morbido sguardare:
chè lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiera stare.

 

La scuola toscana

Con la morte di Federico II (1250) e del figlio Manfredi si assiste al tramonto della potenza sveva e anche l’esaurirsi della poesia siciliana. Dopo la Battaglia di Benevento (1266 tra Carlo d’Angiò e Manfredi di Sicilia) l’attività culturale si sposta dalla Sicilia alla Toscana, dove nasce una lirica d’amore, la lirica toscana, non dissimile da quella dei poeti della corte siciliana ma adattata al nuovo volgare e innestata nel clima dinamico e conflittuale delle città comunali. Sul piano tematico dell’amore cortese, quindi, si affiancano nuovi contenuti politici e morali più adatti alla classe media emergente. Vengono così ripresi in Toscana i temi della scuola siciliana e le ricercatezze di stile e di metrica propria dei Provenzali con l’arricchimento dato dalle nuove passioni dell’età comunale. La poesia dei poeti toscani viene così ad arricchirsi sia dal punto di vista tematico che linguistico anche se viene a mancare “quel livello di aristocrazia formale a cui i siciliani riescono generalmente a mantenersi“. Il “dolce stil novo”, detto anche stilnovismo, è un importante movimento poetico italiano che si è sviluppato nella seconda metà del Duecento. L’origine dell’espressione è da rintracciare nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Canto XXIV del Purgatorio): in essa infatti il rimatore guittoniano Bonagiunta Orbicciani da Lucca definisce la canzone dantesca Donne ch’avete intelletto d’amore con l’espressione ‘dolce stil novo’, distinguendola dalla produzione precedente (come quella del “notaro” Giacomo da Lentini), per il modo di penetrare interiormente luminoso e semplice, libero dal nodo dell’eccessivo formalismo stilistico (Guittone d’ Arezzo). Riportiamo il passaggio dantesco:

« “…Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore

trasse le nove rime, cominciando

Donne ch’avete intelletto d’amore.”

E io a lui: “I’mi son un che, quando

Amor mi spira, noto, e a quel modo

ch’e’ ditta dentro vo significando.”

“O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo

che ‘l Notaro e Guittone[3] e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!…” »

(Purg. XXIV, vv. 49-57)

Corrente che segna l’inizio del secolo, il dolce stil novo influenzerà parte della poesia italiana fino a Petrarca: diviene guida, infatti, di una profonda ricerca verso un’espressione raffinata e nobile dei propri pensieri, staccando la lingua italiana dal volgare, portando la tradizione letteraria verso l’ideale di un gesto ricercato e aulico. Nascono le rime nuove, una poesia che non ha più al centro soltanto la sofferenza dell’amante, ma anche le celebrazioni delle doti spirituali dell’amata. A confronto con le tendenze precedenti, come la scuola guittoniana o più in generale la lirica toscana, la poetica stilnovista acquista un carattere qualitativo e intellettuale più elevato: il regolare uso di metafore e simbolismi, così come i duplici significati delle parole.

Anche qui, chiudiamo con una lirica del Guinizzelli:

“Io voglio del ver la mia donna laudare”

lo voglio del ver la mia donna laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dlana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro e l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina megli.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

e nolle pò apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om pò mal pensar fin che la vede.

 

 


[1] Andrea Cappellano (1150 – 1220) è stato un religioso francese, si ritiene sia stato cappellano alla corte della contessa Maria di Champagne, figlia del re di Francia Luigi VII il Giovane (dalla sua funzione di cappellano deriva molto probabilmente il cognome), proprio nel periodo in cui nascevano e si diffondevano il costume e la lirica cortese.

 

[2] La tradizione narra che i nomi di Guelfi e Ghibellini (in tedesco, Welfen und Weiblingen) ebbero origine in Germania nella prima metà del XII secolo. Secondo la comune opinione i due nomi furono i gridi di battaglia in uso tra i sostenitori della Casa di Baviera e della Casa dei duchi di Svevia (Hohenstaufen) dopo la morte dell’Imperatore Enrico V (1125), che non lasciò eredi diretti. Risuonarono per la prima volta nella forma “Hye Welff!” e “Hye Weiblingen!” sotto le mura del castello di Weinsberg nella battaglia omonima, nei pressi dell’odierna città di Heilbronn (sud ovest della Germania), dove i duchi di Baviera nel 1140 opposero resistenza, poi soccombendo, all’assedio di re Corrado III di Hohenstaufen. Molto probabilmente però l’uso di tali denominazioni in un’accezione più squisitamente politica sorse qualche anno più tardi, quando cioè i due partiti, nati in Germania dalle lotte per la successione al trono, dopo la morte di Enrico V, vennero a contrapporsi come rappresentanti di due indirizzi politici antitetici. I seguaci degli Hohenstaufen sostenevano un indirizzo intransigente nei riguardi di qualsiasi ingerenza politica della Chiesa romana. I due partiti guelfi e ghibellini così come vengono studiati in Italia, il primo a favore di un’intesa con il Papa anche al livello politico e il secondo contrario all’ingerenza Papale nei fatti della politica e a favore dell’Imperatore, anche nei libri di storia tedeschi si chiamano “Guelfen und Ghibellinen”!

 

[3] Guittone d’Arezzo (Arezzo, 1235 circa – Bologna, 1294) è stato un poeta e religioso italiano dell’Ordine dei Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria. Nonostante le dure critiche poi mossegli da Dante, le conoscenze e gli studi di Guittone erano di alto livello. In particolare, la sua produzione dimostra che Guittone aveva un’approfondita conoscenza della lirica siciliana e che padroneggiava in modo straordinario anche quella trobadorica.



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