Lo scenario cambia dal punto di vista territoriale, ma le dinamiche sono le stesse anche ai tempi degli antichi romani. La corruzione continua a dilagare nella politica, nelle aule di giustizia e nella amministrazione della cosa pubblica. La storia sembra pertanto destinata a ripetersi: gruppi di potenti in contrasto tra loro per garantirsi la supremazia, ma legati dall’ interesse comune del mantenimento del potere; clientele tramite le quali si “aggiustano” i processi (oggi probabilmente utilizzeremmo questa espressione) e si truccano le elezioni. La massima testimonianza l’ abbiamo in un processo che si è svolto nel lontano 70 a.C. nella Roma repubblicana. Si tratta del processo che fu intentato dalla provincia di Sicilia contro Gaio Verre, che dell’isola era stato il governatore di Roma per tre anni. I siciliani costituitisi parte civile designarono come avvocato dell’accusa Marco Tullio Cicerone; le sue requisitorie diventarono in seguito una delle sue opere maggiori, comunemente conosciuta come “Le Verrine”. C. Gaio Verre terminò il suo mandato in Sicilia nel gennaio del 70 a. C., ma non fece nemmeno in tempo a tornare a Roma che ben 64 città dell’isola, saccheggiate e stremate dalla cupidigia dell’ex governatore, decisero di adire al Foro Romano per intentare contro di lui una causa per corruzione/concussione.Affidarono a Cicerone, che fu per qualche tempo Questore a Marsala, il patrocinio dell’accusa. Costui aveva accumulato negli anni una tale ricchezza che non ebbe nessun problema a permettersi il migliore avvocato, il principe del Foro Romano Quinto Ortensio Ortalo.Il quale, come prima cosa, cercò di fare slittare il processo oltre l’autunno del 70, in modo da poter contare su giudici di nuova nomina e più facilmente influenzabili.
Purtroppo per Verre ebbero la meglio la solerzia e le capacità di Cicerone, il quel riuscì a far iscrivere a ruolo la causa prima dell’interruzione estiva, evitando così che fossero gli amici dell’eccellente imputato a giudicarlo. Nella prima arringa Cicerone afferma: “[…]In questo processo, che i Siciliani mi hanno affidato allo scopo di tutelare i loro interessi oltre che la loro onorabilità, mi sembra si verifichi una stranezza: che coloro che chiedono sia fatta giustizia, perché lesi e rapinati da un Governatore corrotto, ladro dei loro beni e saccheggiatore della loro terra, meritano di essere difesi.” A seguito di essa Cicerone ottenne la piena legittimazione del suo incarico e gli furono concessi 110 giorni per compiere le sue indagini. Durante il viaggio in Sicilia di Cicerone, Verre cercò di impedire all’avvocato dell’accusa di tornare a Roma con le prove con l’arma che meglio conosceva, ovvero quella della corruzione. Cercò di corrompere l’accusatore con un’ingente somma di denaro difficile da rifiutare; ovviamente quella venne rifiutata da Cicerone. Nonostante tutti i tentativi di Gaio Verre il processo partì e i capi d’accusa erano innumerevoli per un uomo “dalla smodata cupidigia”. Diversi furono i capi d’imputazione portati avanti da Cicerone durante le requisitorie. Sembra ad esempio che Gaio Verre, una volta diventato Pretore e quindi con la possibilità di legiferare, abbia iniziato ad emanare editti con molta disinvoltura. Non a caso, il diritto romano deve a lui l’invenzione dell’editto “ad personam”. Gli editti e i decreti non entravano in vigore erga omnes, come sarebbe stato normale, ma servivano solo a chi li comprava. Infatti Verre emanava editti su richiesta in cambio di denaro. Le accuse contro Verre erano talmente tante che lo stesso Cicerone sapeva di non poterle elencare tutte. Ma tra i vari fatti commessi dal Governatore, alcuni sono degni di essere ricordati: il mercato delle cariche pubbliche,i reati relativi agli appalti delle tasse e delle imposte, quelli relativi all’amministrazione fiscale in genere e al furto sistematico delle opere d’arte, di cui la Sicilia era ricca. Un’altra attitudine di Verre era quella di fare l’usuraio, infatti spesso si incaricava di prestare ad usura il denaro necessario agli appaltatori per far fronte alla continua imposizione fiscale. Alla fine La sentenza riconobbe Verre colpevole, ma solo di pochi reati e la pena comminata fu irrisoria. La storia di Verre sembra sempre ripetersi,come rileva il critico Fulvio Milone, analizzando la relazione del procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci, relativa al rendiconto generale dello Stato per l’ esercizio del 2008. A Sessanta miliardi ammonta il danno economico provocato dalla corruzione nella pubblica amministrazione. Tale malcostume inoltre provoca altre maggiori conseguenze, rischia, soprattutto nell’ Italia Meridionale, di ostacolare gli investimenti esteri, di distruggere la fiducia nelle istituzioni e di togliere la speranza nel futuro a generazioni di giovani. Per la Corte dei Conti, contro questo fenomeno va posta in essere una decisa opera di contrasto.
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