Venerdì 11 gennaio si è svolta, in tutta Italia, la Notte Bianca del Liceo Classico. È una bella idea, nata in quel tanto vituperato Sud d’Italia che, a dispetto della sua sempre maggiore lontananza dall’epicentro di questa triste globalizzazione – tecnicista, economicista ed efficientista – non manca ogni tanto (e speriamo sempre più spesso) di sorprenderci.
Lo fa, spesso, nel modo che meglio riesce alla gente del Sud: richiamarci al valore delle cose umane; prenderci per la mano e portarci laggiù, dove c’è più caldo e il tempo va più piano. È come se la Magna Grecia, osservandoci da molto lontano, con distacco olimpico (qui ci sta proprio bene), ogni tanto si prendesse la briga di mandarci un messaggio, un richiamo a guardarci dentro: «ma dove andate così di corsa – sembra dire – smettete di pensare solo alla materia e ascoltate la musica della vita – stolti!» (la Magna Grecia parla ancora un po’ aulico, evidentemente).
Già, la musica della vita. E difatti quanto “suona”, quant’è musicale il tormento amoroso della poetessa Saffo di Lesbo letto in greco antico; e poi che dire del guazzabuglio emotivo di Catullo, sconquassato fra un odio e un amore che solo e unicamente il suono del latino riesce a rendere così onomatopeico e struggente.
Incredibile come il solo tocco di qualche parola antica riesca a scioglierci, induriti protagonisti delle nostre difficile vite adulte, dentro un’onda emotiva sorprendente: poche parole in greco e ti ricordi, come fosse ieri, di quando la già anziana professoressa di greco, nubile e cattolicissima, piangeva commossa fra i banchi, recitando in greco i versi di quella poetessa lontana del tempo – ma vicinissima, compagna di banco, in tutto il resto. Ti ricordi di come riuscisse ad estrarre il valore universale dell’amore, dalle per lei inaccettabili e indicibili vicende dell’omosessualità, e suonarlo, battendo i tasti di una lingua che non c’è più.
E allora, mentre osservi questi liceali camminare lentamente in tondo, nella penombra, proprio come un coro greco, e in questo circolo recitare poesie che da tremila anni suonano sempre allo stesso modo e da tremila anni arrivano sempre allo stesso punto dei corpi che hanno di fronte, speri arrivi Leonida. Sì, lo spartano, quello ignorante come un criceto e sensibile come un muretto a secco –proprio lui. Speri che arrivi, nervoso assai, alla testa dei suoi trecento guerrieri e ci dia dentro di brutto.
Perché il nuovo Ciro il Grande da fermare, ad ogni costo e con ogni mezzo, è qui fra noi, è alle porte – anzi, ha già infiltrato qualcuno dei suoi a preparargli il terreno. Va fermato: è questo l’imperativo categorico che senti pulsare e che inizia a salire lungo le vene quando una di quelle liceali che ci giravano in tondo si ferma e, illuminata da un faro nella penombra, inizia a cantare. Ricordate The Mission? Quel bel film con Robert De Niro che racconta della vicenda dei gesuiti presso gli indios del Parana. C’è una scena in cui una bambina inizia a cantare: ferma la terra; clic: mette un dito sul mondo e lo fa smettere di ruotare su sé stesso; blocca l’aria nei polmoni di chi la sente. Quella ragazza, Martina, nel buio di un Liceo Classico, fa lo stesso.
Ciro il Grande, nel XXI Secolo, è quella supposta cultura riformista e postmodernista che ha l’ardire di ritenere “inutili” il greco e il latino; di considerare la cultura classica come roba del passato, inadeguata alle sfide che questa visione efficientista del tempo attuale ci propone come le uniche possibili.
Scrive Nuccio Ordine nell’introduzione di un libro del 2013 L’utilità dell’inutile: «esistono saperi fine a se stessi che –proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale- possono avere un ruolo fondamentale nella crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno di questo contesto, considero utile quello che ci aiuta a diventare migliori».
Diventare migliori: salire su un gradino più alto di quello nel quale abbiamo esordito su questa terra. Ecco a cosa serve il Liceo Classico: a darci le scarpe, la spinta per farlo ma, soprattutto, a farcela venire quell’idea un po’ folle e a farcela amare.
Grazie, dunque, Rocco, inventore della Notte del Liceo Classico e grazie a tutti i liceali, studenti e docenti, che ci ricordate, in questa fredda notte di gennaio, che senza l’anima nulla vale, nulla serve, nulla suona.
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