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Venezia; un pensiero mentre prendo il treno per Roma

Vista dall’ Isola della Giudecca, oltre il canale, Venezia sembra uno di quei modelli di città che, in certi dipinti medievali, principi e Santi uomini presentano su un piatto alla protezione divina.
Una linea netta di luccicore, come di d’argento, e sopra il profilo di case e campanili, tra il filo dell’acqua e lo sfondo del cielo. Un sogno sembra, ed è sempre sembrata per secoli, la città lagunare: una contraddizione in termini, una sfida ostinata e infinita alle leggi della natura e non solo a quelle. Tanto difficile da figurarsi nella mente, per chi non l’ha mai vista, da giustificare la definizione, attribuita ad una viaggiatrice americana, come “quella città dove le strade sono piene d’acqua”. Come riuscire altrimenti a immaginarsela, questa Venezia anfibia, in cui l’elemento solido e quello liquido si compenetrano come forse solo succede nelle foreste di mangrovie subtropicali, e nella quale i corsi d’acqua non sono stati scavati nel terreno, fra le case, ma è il terreno, e poi le case, che sono stati gettati nell’acqua, tante isole circondate dai canali; come in Olanda, o a Dubai, ma molti secoli prima. Vista dalla Giudecca, Venezia sembra anche più vera, invasa quasi disumanamente da falangi di turisti ansiosi di ammirare questa città inimmaginabile. Un palcoscenico che magnifica qualunque vicenda, su cui ogni umana rappresentazione, dal matrimonio al funerale, assume un’aura di spettacolarità. Si pensi solo al Carnevale. Qui basta poco per entrare nel gioco, due piume nei capelli, qualche lustrino intorno agli occhi, un tricorno portato su giacca a vento e zainetto o, se proprio si vuole, un domino di poliestere comprato alla stazione di S. Lucia; e ci si sente in maschera, come gli anziani gentiluomini in pompa perfetti in ogni dettaglio, assolutamente credibili nei pantaloni a sbuffo e calzamaglie di lana, o le dame in crinolina, perle e nobili rughe sotto le colombine nere. Ma la Giudecca è diversa, è l’altra faccia della Venezia turistica e luccicante, sebbene ospiti due dei più lussuosi alberghi della città, il Cipriani da un lato l’Hilton; nell’ex Molino Stucky, dall’altro. La sua piscina sul tetto, all’ombra della guglia neogotica, è forse il posto più panoramico di Venezia, sicuramente il più costoso dove fare una nuotata, spaziando con lo sguardo dalle ciminiere fumanti di Marghera ai campanili di Dorsoduro e S. Marco. I turisti preferiscono percorsi più centrali; sicché alla Giudecca si continua a respirare un’atmosfera rilassata, addirittura popolare. Sarà per le signore con le sporte della spesa, che tornano dal mercato del venerdì alla Sacca Fisola; sarà per le semplici case attorno alla calle del Cantiere (dietro al carcere femminile nell’ex convento delle Convertite), legate fra loro dai fili del bucato che con le lenzuola e la biancheria stesi formano un velario sventolante sui campielli-cortili. Sarà ancora per i campielli verdi di prato, come il campazzo S. Cosmo, o per gli orti di calle de la Fonderia, folti di radicchio, cavoli, lattughe e rosmarino. Oltre il canale della Giudecca Venezia ci mette poco a ritrovare se stessa, già dalle Zattere, che orlano il sestiere di Dorsoduro; il viavai animato, i locali hotel de charme, ristoranti famosi -e quel percorso affollato e quasi obbligato fino alla punta della Dogana, ultima attrazione della città nella ristrutturazione di Tadao Ando che ospita le collezioni di Francois Pinault. Andare a caso, incuranti delle carte: ché probabilmente non esiste neanche una cartina attendibile al
cento per cento, che riporti tutti i rii, le calli, i campi e: campielli, le salizzade e i sottoporteghi. Poi, giunti davanti a una chiesa, individuarla sulla carta per capire dove si è capitati, e ripartire, compiaciuti della scoperta verso un altro pezzo del labirinto, ma questa città paradosso, come la torre di Pisa che pende, che pende e mai non va giù. Così Venezia, sprofonda, a sprofonda ma, grazie al cielo, non affonda mai. E ammirando certe sue chiese colossali, come S. Maria della Salute, milioni di tonnellate di pietra sull’acqua, si capisce anche come sia tutto frutto di un magnifico, prolungato miracolo.



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