Pensatore cinese (551-479 a. C.) basò la sua dottrina sulla necessità dello studio
degli antichi testi e sulla pratica dell’umanità. Lo studio e la pratica sono i mezzi indispensabili per il perfezionamento morale del singolo individuo.
-Come ti definiresti?
«Educatore uomo di Stato o filosofo cinese».
-Confucio è il tuo vero nome?
«Il nome della mia famiglia è K’ung. Il padre Matteo Ricci latinizzò in Confutius la frase K‘ung fu-tzu, in cui le sillabe fu-tzu significano maestro».
-Puoi raccontami in breve la tua adolescenza?
«Sono nato da un padre settantenne, discendente da una famiglia di funzionari. Sono stato allevato nella povertà da mia madre vedova».
-Eri un ragazzo intelligente, hai fatto una rapida carriera statale. Poi che cos’è successo?
«Sono stato costretto a emigrare. Ho viaggiato per molti anni, di corte in corte, nella Cina feudale a nord del Fiume Giallo».
-Hai scritto molto?
«Neppure una riga. Le mie idee sono state trasmesse dai discepoli».
-Che cosa insegnavi?
«Soprattutto i riti, la musica, la letteratura. Spiegavo il “Libro dei Versi” (Shih-king) e il Libro delle Storie (Shu-king) da me raccolti. Dicevo: “Trasmetto e non invento”. Cercavo di insegnare l’arte del buon governo».
-E anche la vita virtuosa, no?
«Dal benefico influsso della vita virtuosa dei superiori dipende l’ordine dello Stato: la virtù del sovrano è come il vento, quella del popolo come l’erba; l’erba si curva quando passa il vento».
– Non è una morale aristocratica?
«Si può condurre il popolo a praticare la virtù, ma non si può dargliene una coscienza razionale. Vincere se stesso, reprimere le passioni, seguire i riti, capirne il significato, è il modo con cui l’uomo superiore giunge alla santità».
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