Apr
18th
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Il Dolce Stil Novo di Guinizzelli e Cavalcanti

Al cor gentil rempaira sempre amore/come l’ausello in selva a la verdura;/né fe’ amor anti che gentil core,/né gentil core anti ch’amor, natura:/ch’adesso con’ fu ’l sole,/sì tosto lo splendore fu lucente,/né fu davanti ’l sole;/e prende amore in gentilezza loco/così propïamente/come calore in clarità di foco.  Questo è l’incipit del testo della poesia più famosa di Guido Guinizzelli, il poeta italiano riconosciuto come l’iniziatore di quel movimento poetico della seconda metà del secolo XIII che va sotto il nome di Dolce Stil Novo[1], la corrente letteraria italiana di cui, appunto, la sua canzone “Al cor gentil rempaira sempre amore” è considerata il manifesto.

La poesia stilnovistica, che ebbe come centri più importanti dapprima Bologna e poi soprattutto Firenze, si distingue dalla produzione poetica precedente, quella della Scuola Siciliana e quella toscana o di transizione (vedi precedente articolo) per la fondamentale concezione dell’amore, che viene inteso come capace di elevare l’uomo verso Dio attraverso la mediazione della donna-angelo (donna angelicata), messaggera di Dio stesso; in questa corrente letteraria è anche molto importante l’identificazione dell’amore con la nobiltà o gentilezza d’animo, che è quindi considerata qualità propria dell’uomo e non derivante dalla nascita. Infine, bisogna accennare al fatto che la raffinatezza del linguaggio, la dolcezza e musicalità del verso sono particolarmente curate dagli stilnovisti.

Ma il maggior poeta del Dolce stil nuovo, prima di Dante, fu un altro Guido e per la precisione il suo nome è Guido Cavalcanti.

Il Cavalcanti fu anche uomo di grande personalità, intellettuale, aristocratico e pensatore profondo, capo ideale del gruppo fiorentino che guidò la nuova corrente stilnovistica.

Egli rinnovò anche molte forme tradizionali della poesia italiana, ricco di motivi e di ispirazione, ebbe notevole influenza anche su Dante giovane.

E importante citare il fatto che oltre all’acuto senso di bellezza, ed a ad un desiderio umanissimo di amore e di gioia, traspare dai suoi versi un senso drammatico, angoscioso del dolore, della morte e dello sbigottimento che essa provoca. Per esempio, prima di essere mandato in esilio e durante una malattia, nel componimento intitolato “Perch’ì no spero di tornar giammai”  esprime con semplicità ed insieme con profondità il sentimento del poeta malato, lontano dalla patria e dalla donna amata, nonché lo sconforto che lo assale al pensiero della morte. Ne riportiamo qui di seguito alcuni versi:

Perch’i’ no spero di tornar giammai,
Ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.
Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura :
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

 


[1] Così lo definì Dante, il qual più volte elogia il poeta bolognese pur non considerandolo propriamente un capo scuola.



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