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L’ ultima rivoluzione dell’Europa

In pochi anni, alla fine del XX secolo, l’Europa è diventata una società multietnica: senza alcuna programmazione, senza alcun progetto, senza una guida politica. Oggi su 375 milioni di europei, ben 40 milioni vivono fuori dal loro paese d’origine: in quasi tutte le nazioni e le città europee, gli immigrati sono più del 10%. La maggior parte di loro arriva dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Ma questi immigrati – che hanno culture e tradizioni molto diverse dalle nostre – in quale misura sono assimilabili? E che cosa succederà degli “indigeni” europei, con il loro basso tasso di natalità e sempre più anziani? E in particolare, quale può essere il rapporto con una minoranza di 20 milioni di persone, culturalmente coesa, come quella musulmana?

 

Caldwell Christopher

Garzanti Libri – 2009

ISBN: 8811740606

trad. dall’inglese di Annibale Manazza

440 pp., € 20,00

Massimo Introvigne per CESNUR (Centro Studi sulle nuove Religioni) affrontra il problema in questi termini:

Nella magna carta della dottrina sociale della Chiesa per il XXI secolo, l’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI fissa tre principi fondamentali relativi alla questione dell’immigrazione, che – sottolinea – è «di gestione complessa», comporta «sfide drammatiche» (n. 62) e non tollera soluzioni sbrigative.

1. Il primo principio è l’affermazione dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate» (ibid.). Una volta che è arrivato nel Paese di destinazione, il migrante deve vedersi riconosciuti i «diritti fondamentali inalienabili» (ibid.) e dev’essere sempre trattato come una persona, mai «come una merce» (ibid.).

2. Il secondo principio è che si devono ugualmente salvaguardare i diritti «delle società di approdo degli stessi emigrati» (ibid.): diritti non solo alla sicurezza ma anche alla difesa della propria integrità nazionale e della propria identità.

3. Il terzo principio riguarda i diritti delle società di partenza degli emigrati, che si deve porre attenzione a non svuotare di risorse e di energie, sottraendo loro con l’emigrazione persone che sarebbero utili e necessarie nel Paese di origine. Va sempre posta attenzione al «miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare» (n. 47): anzitutto dove sono nate, e senza essere costrette o indotte all’emigrazione. In occasione del viaggio del 2008 negli Stati Uniti Benedetto XVI aveva precisato: «La soluzione fondamentale è che non ci sia più bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente, così che nessuno abbia più bisogno di emigrare. Quindi, dobbiamo lavorare tutti per questo obiettivo, per uno sviluppo sociale che consenta di offrire ai cittadini lavoro ed un futuro nella terra d’origine» (Intervista concessa dal Santo Padre ai giornalisti durante il volo diretto negli Stati Uniti d’America, del 15 aprile 2008).

Questi principi sono violati da due distinti atteggiamenti e ideologie. Il primo principio è negato dalla xenofobia – descritta e denunciata da Papa Giovanni Paolo II nel Messaggio per la 89a Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2003, del 24 ottobre 2002 –, cioè dalla convinzione  che l’altro, lo straniero è per definizione inferiore a chi abita da sempre  il Paese di approdo dell’emigrazione e può essere quindi discriminato in quanto straniero. C’è una xenofobia rozza e talora semplicemente stupida, quella di chi scrive sui muri «Morte agli immigrati». E ce n’è una più scaltra e sottile, quella di chi sfrutta la diffusione di questi sentimenti per la manipolazione degli immigrati al servizio di strategie di potere economico – l’immigrato è considerato soltanto un lavoratore che costa meno –  quando non criminale. Un certo «turbocapitalismo» davvero considera l’immigrato «come una merce» e non come una persona.

Il secondo e il terzo principio sono violati dall’immigrazionismo – l’espressione è stata coniata dal politologo francese Pierre-André  Taguieff e ripresa dal giornalista statunitense Christopher Caldwell nel suo libro Reflections on the Revolution in Europe. Immigration, Islam and the West (Penguin, Londra 2009: il titolo è un omaggio alle Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, il testo contro la Rivoluzione francese del 1789 di Edmund Burke, 1729-1797; trad. it.: L’ultima rivoluzione dell’Europa, Garzanti, Milano 2009) – cioè dall’ideologia secondo cui l’immigrazione è sempre e comunque un fenomeno eticamente e culturalmente buono ed economicamente vantaggioso, e negare che lo sia è di per sé manifestazione di xenofobia e di razzismo.
Sarebbe sbagliato sostenere che la xenofobia sia  sempre «di destra» e l’immigrazionismo «di sinistra». C’è una sinistra – per esempio sindacale – che manifestando timori per la concorrenza degli immigrati sul mercato del lavoro assume toni xenofobi. E l’immigrazionismo ha una versione «di sinistra» e una «di destra». Nel suo libro Caldwell ricostruisce la genesi dell’immigrazionismo «di destra» in Europa, da Nicolas Sarkozy – peraltro più acceso sul tema da Ministro dell’Interno della Repubblica Francese e più moderato da presidente – a Gianfranco Fini.

C’è peraltro una differenza fra immigrazionisti di sinistra e di destra. I primi pensano che – per fare ammenda del passato coloniale e del presente neo-colonialista e imperialista – l’Occidente debba tollerare dagli immigrati comportamenti che non sopporterebbe mai dai suoi cittadini. La delinquenza e perfino il terrorismo degli immigrati sono visti dall’immigrazionista di sinistra con una certa indulgenza: dopo tutto, dirà, «li abbiamo sfruttati per anni», e se protestano in modo non precisamente compito «non è poi tutta colpa loro». L’immigrazionista di destra assicura che, se viola la legge, l’immigrato sarà trattato con la dovuta severità dalla polizia. «Tutti devono rispettare la legge», ripetono i Sarkozy e i Fini. Si può subito rispondere che questo è ovvio – solo l’ideologismo sfrenato dell’immigrazionista di sinistra suggerisce che qualcuno possa non rispettare la legge –: ma non è abbastanza. Un immigrato che non mette bombe nelle metropolitane, non brucia le automobili del quartiere e non picchia i poliziotti – ma nello stesso tempo vive e pensa secondo valori antitetici a quelli europei – è veramente una risorsa per l’Europa oppure rimane un problema?

Raramente la xenofobia è sostenuta da una elaborazione culturale, se non si vuole considerare tale il ritorno a vecchie teorie della razza da parte di qualche gruppuscolo neo-nazista. La xenofobia si combatte, come notava Papa Giovanni Paolo II nel documento citato, con il richiamo alla figura naturale e cristiana della persona creata, voluta e amata da Dio qualunque siano la sua etnia, la sua lingua e la sua nazionalità. Ci sono però dei «professionisti dell’anti-razzismo» che manipolano pericolosamente la lotta alla xenofobia sfruttandola per diffondere il relativismo culturale,cioè l’idea che tutte le culture sono uguali e che non esistono culture migliori o peggiori di altre. Questo «eclettismo culturale», che rischia di diffondersi anche a causa della globalizzazione che fa incontrare più spesso e più rapidamente le culture tra loro, sostiene – spiega la Caritas in veritate – che le culture sono «sostanzialmente equivalenti» (n. 26). Questa è un’opinione molto diffusa, ma è pure il cuore stesso del relativismo, che la Chiesa non può accettare. Le culture non sono affatto tutte dello stesso valore. Vanno giudicate alla luce della loro capacità di servire il bene comune e i veri diritti della persona, che non tutte le culture rispettano nello stesso modo. Una cultura fondata sulla poligamia e una fondata sul matrimonio monogamico non sono «equivalenti». Alla luce non solo della religione ma anzitutto del diritto naturale, che s’impone a tutti sulla base della ragione, la poligamia è sbagliata e la monogamia è giusta. Sono affermazioni poco «politicamente corrette», ma che vanno assolutamente mantenute se si vogliono difendere i diritti della verità ed evitare di promuovere il relativismo.

A differenza della xenofobia, l’immigrazionismo è sostenuto da argomenti di notevole impegno intellettuale. Non sarebbe dunque giustificata nell’esame del problema una par condicio nel criticare le due deviazioni – xenofobia e immigrazionismo – dai principi  che la dottrina sociale fissa in tema d’immigrazione. Dal punto di vista intellettuale l’immigrazionismo è più insidioso, rischia di essere più persuasivo e dunque richiede una confutazione più articolata.

  1. Le cinque tesi dell’immigrazionismo

La propaganda immigrazionista si fonda su cinque tesi fondamentali, che è opportuno esaminare e confutare una per una.

1. La prima tesi è di carattere quantitativo. Sostiene che in Europa, dopo tutto, gli immigrati sono ancora una minoranza e l’allarmismo è ingiustificato. Echi di questa tesi si trovano, per esempio, nel rapporto Caritas/Migrantes Immigazione Dossier Statistico 2009. XIX Rapporto (IDOS, Roma 2009), che – se fornisce dati utili, che tutti utilizziamo e per cui siamo grati ai compilatori – è caratterizzato nei commenti da una buona dose d’immigrazionismo. Gli immigrati regolari (esclusi dunque i clandestini) secondo questo rapporto in Italia sono 4.330.000. La cifra – si dice – può essere considerata alta da chi vede il bicchiere mezzo vuoto. Ma per l’ottimista che lo vede mezzo pieno gli immigrati sono meno del dieci per cento dei circa sessanta milioni di residenti sul territorio italiano. E il dato è analogo per l’Unione Europea nel suo insieme: cinquecento milioni di cittadini, cinquanta milioni d’immigrati. Ci sarebbe dunque posto per tutti. Il problema, però, è che questo ragionamento guarda al dato sugli immigrati come a una fotografia. Ma l’immigrazione è un processo, e dunque è necessario guardare non alla fotografia o al singolo fotogramma ma al film. Ci sono delle bellissime e artistiche fotografie di un uomo che corre. Ma non ci dicono quando è partito, in che direzione corre e dove pensa di arrivare. Così – stando sempre ai dati Caritas relativi agli immigrati regolari – questi erano 2.670.514 nel 2005 e appunto 4.330.000 alla fine del 2008. Proiettando semplicemente il dato – e guardando appunto il decorso nel tempo, il film e non solo la fotografia – ci si accorge che saranno più che raddoppiati in cinque anni, dal 2005 al 2010. Ed erano già raddoppiati, da 1,3 a 2,6 milioni, dal 2003 al 2005. A questi ritmi nel 2030 ci sarebbero in Italia dodici milioni d’immigrati regolari, venti milioni nel 2050. Ed è un film già visto altrove: in Olanda, su tredici milioni di residenti, oltre tre milioni sono immigrati extra-comunitari, e questi sono un milione e mezzo su nove milioni di residenti in Svezia.

Naturalmente, questi dati li conoscono anche gli immigrazionisti. Rispondono invitandoci a un duplice atto di fede: dovremmo credere che in futuro ci saranno meno immigrati, e meno figli di immigrati nati nei nostri Paesi. Sul primo punto, battono la grancassa su dati ampiamente pubblicizzati secondo cui il sovraffollamento demografico è un fenomeno che va sparendo in tutto il mondo. Ma dimenticano che il sovraffollamento demografico non è l’unica ragione che spinge a emigrare. Per limitarsi a un esempio semplice – che presento solo come una prima approssimazione, perché in realtà le concause in gioco sono molte – in molti Paesi dell’Europa dell’Est non c’è nessuna esplosione demografica, anzi ci sono problemi di denatalità. Tuttavia si continua a venire in Italia, non perché non ci sia spazio a casa propria ma perché si vede la televisione italiana e ci si convince, a torto, che il nostro è il Paese di Bengodi dove ci si può arricchire rapidamente.

Quanto al secondo punto, è vero che le seconde e le terze generazioni, per esempio, di marocchini venuti in Italia iniziano a essere influenzate dal clima culturale e morale italiano e a limitare il numero dei figli. Ma questo rimane comunque più alto di quello degli italiani «nativi», e del resto continuano ad arrivare immigranti di prima generazione le cui abitudini demografiche rimangono per un certo periodo di tempo quelle del Paese di origine. Non vi è dunque nessuna certezza che il tasso di crescita dell’immigrazione diminuirà in  futuro. E nessun Paese del mondo può permettersi le percentuali d’immigrati che si profilano all’orizzonte italiano ed europeo.

Gli esempi degli Stati Uniti o dell’Australia, invocati dagli immigrazionisti, non sono pertinenti, perché questi sono Paesi composti quasi interamente da immigrati. A meno di non considerare «americani» solo gli indiani e «australiani» solo gli aborigeni. A quel punto avrebbe ragione quel manifesto, per molti versi geniale, della Lega che mostra l’immagine di un pellerossa con lo slogan: «Loro hanno subito l’immigrazione. Ora vivono nelle riserve. Pensaci!».

2. Secondo argomento: accogliere grandi quantità d’immigrati, si dice, è un imperativo morale. Lo affermano politici di sinistra e (talora) di destra, e anche ecclesiastici. Si afferma che questo è il contributo moralmente obbligatorio dell’Unione Europea – anche come penitenza per i peccati del colonialismo – per risolvere i problemi della fame del mondo e del sottosviluppo. Ma, a prescindere dal fatto che presentare il colonialismo come soltanto dannoso e malvagio è piuttosto unilaterale e storicamente discutibile, non c’è nessuna prova convincente che sia meno costoso per l’Europa e più proficuo per il Terzo Mondo trasferire da noi milioni d’immigrati extra-comunitari piuttosto che destinare le stesse risorse ad aiutarli nei loro Paesi d’origine. Ci sono anzi fondati indizi del contrario. Chi afferma che molti immigrati sono ottimi candidati alla cittadinanza ci racconta spesso quanti geni dell’informatica, ottime infermiere e bravi medici vengono dai Paesi del Terzo Mondo. Ma non riflette sul costo etico costituito dal fatto che così facendo si sottraggono ai Paesi d’origine proprio quelle élite che sarebbero loro indispensabili per uscire dal sottosviluppo. L’infermiera ugandese che viene in Italia è sottratta all’Uganda, dove servirebbe come il pane per combattere le epidemie.

Un argomento etico molto usato anche in Italia si riferisce al diritto d’asilo. Tuttavia questo diritto è di rado definito in modo rigoroso, e talora è ridotto a una semplice farsa.  Chiunque non si trovi bene in un Paese non democratico o sia vittima di gravi sperequazioni economiche avrebbe diritto a chiedere asilo politico – in una parola, la stragrande maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo avrebbe questo diritto.

Al contrario, c’è un argomento etico per opporsi all’immigrazionismo, fondato sul rispetto dei diritti delle maggioranze, non meno importanti di quelli delle minoranze. La maggioranza dei cittadini dell’Unione Europea nei sondaggi e anche nelle elezioni si dichiara contraria ai progetti immigrazionisti. Nonostante l’opinione maggioritaria dei cittadini europei, questi progetti continuano a essere trasposti nelle leggi di molti Paesi. Il fatto che il parere della maggioranza degli elettori sia ignorato non crea forse un problema alla democrazia?

3.  Il terzo argomento degli immigrazionisti è di tipo economico. Questa tesi è talora ripetuta acriticamente anche da critici dell’immigrazione. Si dice che l’Europa, a causa della denatalità, ha bisogno d’immigrati – non importa provenienti da dove –: e in ogni caso ci sono «lavori che nessun europeo vuole più fare» e che possono essere svolti solo dagli immigrati. È vero, l’Europa ha un drammatico problema demografico e le cifre sono ormai quelle tipiche di civiltà moribonde. Ma non è certo che l’aumento indiscriminato degli immigrati sia la soluzione, per tre principali motivi.

In primo luogo, gli immigrati extra-comunitari, con i loro bassi salari, spesso tengono in vita temporaneamente posti di lavoro comunque destinati a sparire. Questo accanimento terapeutico non è necessariamente salutare per l’economia. L’industria tessile del Nord della Francia e una buona parte della siderurgia in Germania avrebbero perso comunque la grande maggioranza dei loro posti di lavoro alla fine del XX secolo per ragioni indipendenti dal calo demografico: a causa del progresso tecnologico e della disponibilità di prodotti a costi minori provenienti dalla Cina. Questi posti di lavoro – che non avrebbero potuto essere conservati al salario normale di un operaio francese o tedesco – sono sopravvissuti per qualche anno grazie all’impiego d’immigrati sottopagati. Ma alla fine le officine hanno comunque chiuso. Tenerle in vita artificialmente per qualche anno è stato possibile grazie agli immigrati. Ma i costi hanno superato i benefici. Sarebbe stato meglio chiuderle prima.

In secondo luogo, i «lavori che nessun europeo vuole» sono spesso «lavori che nessun europeo vuole se il salario non è attraente». Esistono pochissimi lavori che gli europei si rifiutano di fare «qualunque sia il salario». La verità è un’altra: ci sono datori di lavoro che preferiscono impiegare per certi lavori gli immigrati, i quali costano meno. Questo altera e distorce il mercato del lavoro, e viola i diritti dei cittadini disoccupati che si vedono passare davanti immigrati disposti a lavorare a basso costo. Si assiste al paradosso per cui in alcuni Paesi, mentre aumenta la disoccupazione, aumenta contemporaneamente anche l’immigrazione.

Per amore di equità, si deve peraltro riconoscere che non tutto in questo argomento degli immigrazionisti è falso. Ci sono settori dove effettivamente senza gli immigrati i problemi almeno a breve termine sembrano di difficile soluzione: il caso delle badanti in Italia sembra, qui, pertinente. Ma l’esempio può essere occasione di distinguere fra immigrati extra-comunitari e intra-comunitari. Su cinquecento milioni di residenti nell’Unione Europea, come accennato, cinquanta milioni sono immigrati. Ma di questi circa venti milioni sono abitanti di un Paese dell’Unione che si sono spostati in un altro. Benché, come sanno gli italiani, questi spostamenti non siano privi di problemi, l’immigrazione intra-comunitaria è di norma più facile da assorbire di quella extra-comunitaria per ragioni giuridiche e anche culturali. Dopo tutto, ci sono molte badanti romene e poche marocchine, cinesi o tunisine.

4. Il quarto argomento degli immigrazionisti è sociale. Sempre a causa della natalità (e naturalmente del fatto che grazie ai progressi della medicina si vive più a lungo), il welfare europeo è in profonda crisi. Per dirla semplicemente, ci sono troppi pochi giovani e troppi vecchi, troppi pochi lavoratori che sostengono con i loro contributi gli enti previdenziali e troppi pensionati. In alcune zone d’Europa in cinquant’anni si è passati da una situazione dove una media di quattro lavoratori sosteneva un pensionato a una dove per ogni pensionato ci sono solo due lavoratori. Di qui la presunta idea geniale dei teorici immigrazionisti: niente paura, ci penseranno gli immigrati extra-comunitari. I due lavoratori che mancano all’appello perché ogni pensionato sia di nuovo sostenuto da quattro pagatori di contributi li importiamo dal Marocco o dal Pakistan. Anche il citato rapporto Caritas/Migrantes 2009 insiste su questo punto: gli immigrati (regolari) sono un buon affare per il welfare perché danno agli enti previdenziali più di quanto ricevono.

Ma le cose non stanno proprio così. Ancora una volta ci si propone una fotografia, mentre per capire abbiamo bisogno di un film.  Sarà forse una novità per qualche immigrazionista, ma dovrà farsene una ragione: anche gli immigrati invecchiano e un giorno diventeranno pensionati. In Italia l’immigrazione è un fenomeno relativamente recente e gli emigrati pensionati sono pochi. Ma sono destinati fatalmente ad aumentare. Gli immigrati inoltre di solito hanno lavori poco remunerati, dunque pagano contributi relativamente bassi. Uno studio dettagliato sulla Spagna citato da Caldwell nel suo libro mostra che in cinquant’anni, aumentando del 50% il numero degli immigrati extra-comunitari, le entrate degli enti previdenziali crescono solo dell’8%. Inoltre, fin da subito, sia loro sia i loro figli hanno come chiunque problemi di salute di cui la previdenza sociale si deve fare carico.

Una soluzione, per la verità, ci sarebbe, e qualcuno (non in Italia) l’ha anche seriamente sostenuta, senza neppure farsi dare del nazista: considerare gli immigrati «lavoratori ospiti» e rimandarli a casa quando hanno finito di lavorare, far pagare i contributi oggi ma non versare alcuna pensione domani. La soluzione provocherebbe tensioni tali da non potere essere presa davvero in considerazione da nessuno. E manderebbe anche alla rovina qualunque argomento etico degli immigrazionisti.

5. C’è un quinto argomento, che per la verità gli immigrazionisti esprimono raramente ad alta voce. Ma il loro discorso lo  presuppone. È la tesi che la religione degli immigrati sia indifferente. Ogni tanto qualcuno lo dice esplicitamente: siamo laici, e dobbiamo affrontare il problema immigrazione senza tenere conto della religione, di cui potrà occuparsi al massimo la Chiesa. Ma si tratta di una sciocchezza. Anche il più ateo degli osservatori non può non riconoscere che la religione esiste e ha delle conseguenze sociali. Se a Torino, come avviene periodicamente, migliaia di peruviani portano in processione le loro statue della Madonna la gente applaude e i giornalisti manifestano una benevola curiosità. Se migliaia di musulmani occupano il suolo pubblico con le loro stuoie e magari mescolano alla preghiera invettive contro gli Stati Uniti e l’Occidente la gente e i media si spaventano. Denunciare queste reazioni come xenofobe non risolve il problema. Certamente – anche tra gli immigrati – ci sono molti islam, e alcuni sono meno lontani dai valori prevalenti in Europa di altri. Ma se da questa premessa – corretta – si arriva alla conclusione che non esistono caratteristiche specifiche dell’islam si cade nel più completo relativismo, forse di moda in un contesto culturale postmoderno ma privo di senso. Esistono gli islam ma esiste anche l’islam. Che è difficile assimilare alla cultura europea su punti fondamentali che riguardano i rapporti fra fede e ragione, fra religione e violenza, fra maggioranze e minoranze religiose, fra uomini e donne.

Certo, processi di assimilazione d’immigrati islamici, singoli e gruppi, non sono impossibili. Ma in verità nessuna civiltà nella storia è riuscita a fronteggiare senza esserne distrutta l’arrivo in così poco tempo di così tante persone portatrici di una cultura e di una religione sia radicalmente diverse sia forti. Diverso era il caso dei barbari, che portavano in Europa una cultura debole; o degli irlandesi emigrati nel XIX secolo negli Stati Uniti il cui cattolicesimo era diverso dal protestantesimo maggioritario in America: ma non così radicalmente diverso com’è l’islam rispetto all’ethos europeo contemporaneo.

C. Leggi immigrazioniste: l’ora di religione islamica e la cittadinanza breve

Il 30 luglio 2009 gli onorevoli Fabio Granata (PDL) e Andrea Sarubbi (PD) – al dire della stampa, longa manus rispettivamente degli onorevoli Gianfranco Fini e Massimo D’Alema – hanno presentato una proposta di legge (n. 2760) dal titolo Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza. Tra le diverse modifiche legislative proposte, tutte all’insegna di percorsi più facili perché gli immigrati possano ottenere la cittadinanza italiana, la norma saliente che si propone d’introdurre riduce da dieci a cinque anni il tempo di permanenza sul territorio nazionale che consentirebbe, previo un semplice esame di lingua e di educazione civica, di diventare cittadini italiani. Il 16-17 ottobre 2009 ad Asolo (Treviso) la Fondazione FareFuturo, che fa capo all’on. Fini, e la fondazione Italianieuropei, che fa capo all’on. D’Alema, hanno presentato un rapporto – firmato peraltro dalla sola Fondazione FareFuturo – dal titolo Immigrazione integrata e cittadinanza di qualità. Un contributo alla definizione delle politiche migratorie (FareFuturo, Roma 2009). Vi si espongono argomenti a sostegno della proposta di legge Granata-Sarubbi e si lancia l’ulteriore proposta dell’introduzione di un insegnamento della religione islamica nelle scuole italiane, rilevando in via generale – non senza una frecciata anche in direzione delle scuole cattoliche – che «la strada dell’insegnamento facoltativo delle religioni nelle scuole pubbliche, statali e non statali, che garantiscono la qualità dell’interno percorso formativo, è certamente preferibile alle presenza di scuole specifiche a fondamento religioso, che nel nostro contesto rischiano di diventare alternative e contrastanti, fonte di esclusione e di contrasto» (p. 52). Esaminerò brevemente il tema dell’ora di religione islamica e quello della cittadinanza breve, non solo perché sono di attualità ma anche perché sono esempi particolarmente chiari di applicazione pratica dell’ideologia immigrazionista.

1. Ci sono due buoni motivi per respingere la proposta di un’ora di religione islamica nelle scuole italiane. Anzitutto, perché l’ora di religione islamica e non quella ortodossa o Testimone di Geova? E’ possibile che, se parliamo non di origine religiosa ma di contatto più o meno regolare con istituzioni religiose organizzate, queste comunità siano più numerose degli islamici in Italia. I Testimoni di Geova (contati come li contano i sociologi in analogia a ogni altra comunità religiosa, non come si contano loro stessi, che considerano «testimone» solo chi svolge opera di proselitismo suonando alle porte)  in Italia sono 400.000 e gli ortodossi – in maggioranza immigrati – almeno mezzo milione, mentre del milione e più d’immigrati di origine islamica è difficile dire quanti mantengano un contatto con la loro religione. Con la crescita della diversificazione religiosa tra un po’ non si potrebbe negare neppure l’ora di religione pentecostale (350.000 fedeli se si considerano gli immigrati), seguita da quella buddhista, sikh, induista e così via. A parte i problemi organizzativi – sarebbe interessante chiedere al ministro dell’Economia on. Giulio Tremonti che cosa pensa dell’idea di pagare con soldi dello Stato centinaia d’insegnanti d’islam, buddhismo e così via  – ne risulterebbe una Babele e un supermercato delle religioni. Costituzionalizzando con il Concordato l’ora di religione il legislatore ha voluto riconoscere il ruolo della tradizione cattolica – senza la quale è difficile capire in Italia l’arte, la cultura, la letteratura – nella nostra storia e nel nostro ethos nazionale, non dare a tutti i ragazzi che vivono in Italia la possibilità di trovare a scuola la «loro» religione. L’insegnamento di religioni diverse dalla cattolica è del resto liberamente impartito fuori della scuola.

Secondo: chi gestirebbe l’ora di religione islamica?  Tutti i governi, di destra e di sinistra, in Italia ma anche in Francia, in Belgio e in Spagna hanno provato a trovare un interlocutore musulmano unico e rappresentativo. Nessuno ci è riuscito. L’islam (sunnita: quello sciita è un po’ diverso, ma in Italia è pressoché assente) è una religione orizzontale, non verticale: non ha un Papa, non ha vescovi, a rigore non ha neppure parroci. Gli imam sono scambiati per vescovi islamici solo in Italia, grazie ai talk show televisivi. Non sono neppure l’equivalente dei parroci, e nei Paesi musulmani a nessuno verrebbe in mente di considerarli i «capi» dell’islam. Da noi sì, grazie a Porta a porta; ma si tratta di un equivoco. In Francia è viva la discussione su come lo stesso Consiglio francese del culto musulmano (CFCM), costituito dall’allora Ministro dell’Interno Sarkozy per dare allo Stato un interlocutore islamico, nella sostanza non funzioni. Da una parte, per presentarsi come rappresentativo, ha dovuto includere le organizzazioni più fondamentaliste – che lentamente ne stanno prendendo il controllo, proprio quello che Sarkozy non voleva –, dall’altra le liti fra musulmani, e fra i governi che li finanziano (Algeria contro Marocco, Arabia Saudita contro Maghreb), ne paralizzano il funzionamento. Stabilita l’ora di religione islamica anche in Italia occorrerebbe trovare chi impartisca le lezioni. Se fosse l’organizzazione più grande, l’UCOII, l’Unione delle Comunità e Organizzazione Islamiche in Italia (che peraltro si è detta non interessata), che affonda le sue radici nel pensiero fondamentalista, avremmo la scuola di fondamentalismo islamico finanziata dallo Stato. Se non fosse l’UCOII questa – che, piaccia o no, controlla ancora la maggioranza delle moschee italiane (nonostante pregevoli sforzi per creare alternative) – avrebbe ragioni di dire che gli insegnanti non sono rappresentativi, sono «musulbuoni», «sindacalisti gialli dell’islam» o «zii Tom», come va già dicendo per qualunque iniziativa che non la ricomprenda.

Ora di religione islamica a scuola in Italia? Per dirla con l’ispettore Clouseau nel film La pantera rosa «c’è una sola cosa che non va in questa idea: è stupida».

2. Quanto alla cittadinanza breve, la proposta si basa su una confusione fondamentale. La cittadinanza è il cuore – delicatissimo – della nazione. Se per ipotesi paradossale si trasferisse in una nazione in qualche mese un numero di stranieri superiore a quello dei cittadini, e se questi stranieri fossero dichiarati cittadini mettendo in minoranza i «nativi», la nazione – che è ben più di un semplice spazio geografico – cesserebbe di esistere. Certo, è possibile cambiare nazionalità. Ma questa modifica non è creata: è riconosciuta dalla legge. Lo Stato, cioè, prende atto che Tizio che vive in Italia da tanti anni, parla da italiano, pensa da italiano ormai è italiano. Perché il processo sia completo e non ambiguo Tizio dovrebbe, vedendosi riconosciuta la cittadinanza italiana, rinunciare alla sua cittadinanza di origine. L’idea che si potesse avere due cittadinanze era una facilitazione pensata anzitutto per gli italiani d’altri tempi emigrati all’estero. Non dovrebbe avere più ragione di esistere oggi: non c’è in Paesi come la Germania e l’Olanda, mentre c’è nella nostra legge vigente e c’è nella proposta Granata-Sarubbi. Se Tizio si sente italiano, lo dimostri anzitutto rinunciando a ogni altra cittadinanza.

Riconoscere la cittadinanza è la fine di un processo d’integrazione o assimilazione: non è il suo inizio. La proposta Granata-Sarubbi confonde appunto l’inizio e la fine del processo. Concede subito la cittadinanza nella speranza che questa concessione faciliti una successiva integrazione. Gli immigrati moderni – spesso estremamente mobili, pronti a scrutare le condizioni migliori e a studiare il mercato del lavoro per trasferirsi da un Paese all’altro o tornare a casa – raramente dopo cinque anni di soggiorno in Italia hanno cambiato così radicalmente mentalità da non sentirsi più né essere considerati dai loro vicini cinesi, marocchini o nigeriani ma soltanto e a tutti gli effetti italiani. La proposta di legge dunque nasce vecchia, perché pensa a un antico tipo d’immigrato, quello che partiva con il piroscafo per l’America e sapeva bene che non si sarebbe più spostato né sarebbe tornato. Ed è vecchia anche perché – mentre lo studio scientifico dell’immigrazione sempre di più sottolinea che l’integrazione è un fatto qualitativo – dichiara l’immigrato integrato fino al punto da farne un cittadino sulla base del dato puramente quantitativo dei cinque anni di soggiorno. Sugli esami di lingua ed educazione civica non è lecito farsi troppe illusioni in Italia – dove rischierebbero di essere… «all’italiana» –, e nella stessa Gran Bretagna persone poi protagoniste di episodi di terrorismo avevano agevolmente passato esami analoghi. O davvero ci s’immagina che alla domanda dell’esaminatore «Lei è d’accordo con la Costituzione?», qualcuno risponda: «No, io sono d’accordo con Osama bin Laden, viva Al Qa’ida»?

Su una materia così delicata e cruciale come la cittadinanza, davvero è meglio queta non movere, andare con i piedi di piombo e semmai sbagliare per eccesso di prudenza. Del resto nel momento in cui l’Italia vuole allargare le maglie della cittadinanza la Gran Bretagna, che ha avuto le sue esperienze tragiche, nel luglio 2009 ha reso la legge in materia più restrittiva.

D. Che fare?

Lo abbiamo sentito dal Papa all’inizio del nostro discorso: la questione dell’immigrazione è complessa, nessuno ha la bacchetta magica, non  ci sono soluzioni miracolistiche o ad horas. Tuttavia, proprio seguendo Benedetto XVI, si possono indicare tre piste per cominciare almeno ad affrontare il problema.

1. La prima è il governo dell’immigrazione. Nessuno Stato europeo oggi – a fronte delle cifre della denatalità – può pensare di «abolire» l’immigrazione, e nessuna forza politica può ragionevolmente chiederglielo, a meno che si tratti di pura demagogia elettorale. Tuttavia l’immigrazione può e deve essere governata. Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2241 insegna che «le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche». Le autorità che rinunciano a governare l’immigrazione non sono buone, ma buoniste, e vengono meno ai loro doveri verso il bene comune.

2. La seconda è la riaffermazione della propria identità culturale. L’immigrazione sgretola le società soprattutto quando non vi trova un’identità forte. L’Europa oggi, dopo avere rinunciato alle radici cristiane tante volte richiamate da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, è talmente immersa nel relativismo da non avere affatto le idee chiare su quale cultura voglia difendere e proporre agli immigrati. In Olanda qualcuno ha deciso di proporre ai nuovi immigrati i «valori olandesi» riassunti in un video che devono obbligatoriamente vedere. Vi si vedono, tra l’altro, due omosessuali che si scambiano effusioni in pubblico e una bagnante in topless. Non è certo che la maggioranza degli olandesi si riconosca in questi valori. Per contro, è certissimo che il video confermerà gl’immigrati musulmani nel loro sentimento di superiorità rispetto all’Occidente decadente. In altri Paesi i corsi sulla cittadinanza proposti agl’immigrati esaltano il presunto diritto all’aborto.  È evidente che non si tratta di temi intorno a cui una persona sensata può pensare di costruire un’immagine «forte» dell’Europa o delle sue radici, o di rabbonire immigrati musulmani già di per sé convinti della superiorità morale dell’islam. Vengono in mente le parole del poeta francese Charles Péguy (1873-1914) – che pure scriveva nel 1910 e non aveva conosciuto Antonio Di Pietro e le sue inchieste giudiziarie, dette appunto «Mani pulite» – secondo cui c’è una posizione diffusa che «ha le mani pulite ma non ha mani». Non ha mani chi non ha identità né radici. Ma chi non ha mani non può neppure stringere le mani altrui nel dialogo.

3. La terza pista è molto poco «politicamente corretta». Eppure non si può rinunciare a citarla. La differenza di religione, lo abbiamo visto, è un pericoloso fattore di disintegrazione sociale. Al contrario, la conversione religiosa è un fattore d’integrazione. Ci sono pregevoli studi sulle popolazioni romaní – la più nota delle quali è quella rom, e di cui sono note le difficoltà d’integrazione – secondo cui tra coloro che frequentano assiduamente le missioni cattoliche o protestanti – queste ultime in maggioranza pentecostali – il tasso di criminalità, purtroppo in questi gruppi piuttosto alto, scende rapidamente e in modo significativo. Una volta – e per la verità ancora oggi – eravamo tutti sollecitati a dare il nostro obolo perché i missionari potessero andare a convertire gli africani in Africa. Oggi che gli africani vengono da noi, e sembrerebbe che il missionario non debba più neppure scomodarsi ad andarli a cercare, c’è – purtroppo perfino fra il clero – chi curiosamente sostiene che non si deve cercare di convertire gli immigrati perché sarebbe irrispettoso, maleducato o etnocentrico. Pentecostali protestanti e Testimoni di Geova sul punto ci danno una lezione: fanno molta missione presso gli immigrati, anche musulmani, e ne convertono un certo numero. Libertà religiosa e dialogo da una parte e annuncio dall’altra non sono in contraddizione, anzi vanno insieme. Insegna Benedetto XVI ancora nella Caritas in veritate: «La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali» (n. 55). Se non sono uguali, annunciare la verità della religione cattolica all’immigrato significa volere il suo bene, e anche favorirne l’integrazione. Chi considera questa prospettiva inopportuna o di cattivo gusto è relativista. Ed è il relativismo il vero motore dell’immigrazionismo: un’ideologia arrogante, intollerante e pericolosa che irrita le maggioranze e prepara la strada precisamente a quella xenofobia che vorrebbe evitare.

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