Lo sviluppo dei sistemi di cultura iniziò con alcuni sistemi di calcolo che, col tempo, andarono sostituendosi ad oggetti come i sassolini, i semi di piante oppure alla tecnica di intagliare e stampare nell’argilla i “segni” aventi ciascuno un proprio significato[1].
Questi sistemi di calcolo si resero necessari perché permettevano di ricordare meglio e con più certezza contenuti cognitivi utili per la vita quotidiana e successivamente per la trasmissione della conoscenza.
Pertanto, per riuscire a capire il diverso modo con cui le culture si accostano al mondo dal punto di vista della conoscenza, è estremamente importante distinguere tra oralità e scrittura. In definitiva possiamo affermare che le culture si accostano al mondo naturale e sociale con un diverso “stile cognitivo” legato al possesso o meno della scrittura.
Le culture denominate a oralità primaria sono quelle che ignorano la scrittura o che la utilizzano poco; in ogni caso oggi non esistono più culture che non conoscono la scrittura, ma esistono culture dove la scrittura è scarsamente utilizzata. Tali culture, pertanto, sono dette ad oralità diffusa. Comunque gli esempi più noti di culture a oralità primaria sono quella dell’impero precolombiano degli Inka ed il regno precoloniale del Dahomey in Africa occidentale.
E’ interessante notare che anche laddove la scrittura è estremamente diffusa, la comunicazione ordinaria si svolge per lo più informa orale. Tuttavia, in queste culture denominate a oralità ristretta, la scrittura ha contribuito a plasmare il pensiero. Quando, infatti, ci soffermiamo a lungo su una parola pensiamo sempre alla parola scritta.
In altri termini la scrittura ci influenza nel senso che il modo con il quale ci esprimiamo è guidato da un pensiero che si fonda sulla “interiorizzazione” della scrittura medesima.
Perciò la scrittura esercita sulla parola una “specie di imperialismo”, cioè le nostre menti scolarizzate non possono pensare una parola se non in forma scritta e quando parliamo di letteratura orale riferendoci a poesie, canti e leggende di certi popoli che sono state trasmesse oralmente commettiamo un errore perché riduciamo queste forme espressive a una variante imperfetta della letteratura scritta[2].
E’ poi arcinoto che i cantastorie imparano i testi verso per verso e, per rendere la cosa più agevole, li costellano di clausole, di formule ripetitive ed espressioni stereotipate[3]. Questo li aiuta a recitare ricordando meglio le catene di eventi che entrano a far parte del materiale narrativo. Nelle culture a oralità primaria, però, oltre alle poesie ed alle leggende anche la comunicazione “importante” (discorsi politici religiosi giuridici ecc.) si fondava su formule ripetitive che servono per poter seguire il filo del discorso senza dover attingere ad un testo scritto[4].
Di non secondaria importanza è il fatto che all’uso o meno della scrittura può essere fatta risalire la distinzione tra pensiero concreto e pensiero astratto. Infatti nelle culture a oralità primaria, la comunicazione è legata al “concreto” cioè alla sua attualità delle cose e non consente lo sviluppo di un pensiero “astratto” che invece è tipico delle culture a oralità ristretta.
Gli esperimenti di A. Lurjia[5] (1930 ) dimostrarono la distinzione tra concreto e astratto confrontando le risposte date ad una serie di quesiti da individui analfabeti e scolarizzati. In altri termini di fronte a problemi di ordine logico e elementare o semplicemente mostrando delle immagini, mentre gli individui scolarizzati fornivano la risposta corretta, cerchio o rettangolo, i pre-letterati ignari della scrittura, si rifugiavano in riferimenti concreti, sole o porta.
Lurjia utilizzò anche degli indovinelli o sillogismi (colore orsi bianchi a Terranova con confronto dei termini della domanda usandoli nella risposta). Quindi la scolarizzazione non rende le persone più colte, ma consente di sviluppare un pensiero di tipo astratto.
La scrittura consente di trasmettere una “memoria” alla quale si può sempre “ritornare” per riflettere ulteriormente (non sempre uso della memoria per sole cose utili).
Invece le culture a oralità primaria non possono farlo e conservano solo ciò che è utile nel “presente”[6].
La differenza tra pensiero concreto e pensiero astratto indica due modi di riflettere sul mondo circostante. E’ una differenza non assoluta ma relativa. Nel senso che anche noi nel nostro modo di ricordare, di avvicinarci alla realtà non sempre operiamo una distinzione tra concreto e astratto che invece sarebbe presumibile in una cultura dove lo sviluppo del pensiero astratto è stato fortemente favorito dalla scrittura.
Concludiamo questi brevi cenni sulle culture ad oralità primaria (oralità) e ristretta (scrittura), ricordando come molte culture che hanno conoscenze precise su fenomeni naturali, non hanno una sola parola per designarli in generale come: “mammifero”, “albero”, “neve”, ecc..
[1] Teoria dell’archeologa D.Schmandt-Besserat, 1992.
[2] Tesi del 1986 di Walter Jackson Ong (Kansas City, 1912 – Saint Louis, 2003), religioso, antropologo, filosofo, insegnante di letteratura inglese e storico delle culture e delle religioni statunitense.
[3] Agganci mnemonici
[4] Metodo utilizzato anche in riti e preghiere
[5] Lurjia seguì le indicazioni di un altro psicologo russo, Lev Vygotskij (1896-1934; vedi altro articolo su questa testata giornalistica) il quale aveva chiarito come lo sviluppo del pensiero umano non fosse qualcosa di puramente naturale, ma piuttosto il prodotto di processi combinati di natura psichica e di natura sociale.
[6] Effetti omeostatici: tendenza ad eliminare tutto ciò che non ha interesse per il presente
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