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Omicidio King per cambiare la Storia

IL FATTO

Memphis, Tennesee, primi giorni di aprile del 1968. I negri della città sono in agitazione per il riconoscimento dei diritti civili, negati loro dalle autorità razziste dello Stato. Da Atlanta è arrivato il pastore protestante Martin Luther King, leader del movimento di resistenza non violenta dei negri americani. Si sta preparando una “marcia dei poveri” diretta a Washington. Il pomeriggio del 4 aprile King è in casa di amici. C’è anche il suo braccio destro Ralph Abernathy. Ad un certo punto King esce dalla balconata davanti alla porta della sua stanza, al primo piano del Motel Lorraine. Sono quasi le 18. A poche decine di metri di distanza, al di là di uno spazio erboso, si apre lentamente la finestra posteriore di una pensione al numero 422 della Main Street. Dietro quella finestra da alcune ore è in attesa un uomo di circa trent’anni che si fa chiamare John Willard. Quattro giorni prima, a Birmingham, in Alabama, quest’uomo ha comperato un fucile da caccia Remington. Mentre Luther King esce sulla balconata e comincia a parlare con alcuni amici che si trovano in cortile, nella pensione di Main Street, l’uomo che si fa chiamare Willard si chiude nel bagno e apre la finestra che si affaccia sulla balconata del Lorraine Motel. Pochi attimi per aggiustare la mira: alle 18,01 l’aria è lacerata dall’esplosione di una fucilata. Luther King scivola a terra e un rivolo di sangue gli scende dalla fronte. Si chiama un’ambulanza, in pochi minuti il ferito è portato all’ospedale, ma non ci sono più speranze. Poco più di un’ora dopo, Martin Luther King muore. Nella pensione di Main Street, subito dopo la fucilata, l’uomo chiamato Willard esce di corsa dal bagno reggendo un involto lungo e stretto, scende in strada, butta il pacco davanti alla porta di un negozio, sale sulla sua Mustang bianca e scompare. Viene arrestato l’8 giugno 1968 a Londra e riportato negli Stati Uniti. I giudici lo condannano a 99 anni di carcere con il suo vero nome: James Earl Ray.

I PROTAGONISTI

MARTIN LUTHER KING (1929-1968)

Figlio di un pastore battista con il suo stesso nome, nasce ad Atlanta, in Georgia, uno degli Stati del profondo Sud. Giovane di grandi capacità, compie gli studi di teologia in Pennsylvania e poi, con una borsa di studio, si laurea in filosofia all’Università di Boston. Affascinato dalla figura di Gandhi e dalla sua rivoluzione non violenta che ha liberato l’India, decide di applicare questa teoria per ottenere il riconoscimento dei diritti civili dei negri d’America. Da Birmingham, dove riesce ad ottenere l’integrazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici, la sua fama si estende a tutti gli Stati Uniti e presto in tutto il mondo. Più volte arrestato, sfugge a due attentati e prosegue nella battaglia pacifica. Nel 1963, davanti a 250 mila persone che hanno partecipato alla “marcia per la libertà”, pronuncia a Washington un discorso, “I have a dream” (io ho un sogno) che diventerà un documento memorabile. Nel 1964 s’incontra con Paolo VI e riceve (terzo negro dopo Ralph Bunche e Albert Luthuli) il premio Nobel per la pace. La sua attività a favore dei negri diseredati è febbrile: viene stroncata il 4 aprile 1968 da un colpo di fucile.

JAMES EARL RAY (1928-1998)

Primo di nove figli, nasce ad Alton, nell’Illinois. La famiglia si sfascia presto: il padre si abbandona all’alcool. A 15 anni, Ray lascia la scuola e fino a 18 lavora come conciatore. Nel 1946 si arruola nell’esercito, che lascia nel 1948. Dopo pochi mesi, il primo arresto. Ne seguiranno molti altri, fino al 1959, quando viene condannato a 20 anni per rapina. Evade dal carcere nel 1967  e per un anno riesce, sotto falso nome, a sfuggire alla polizia. Dopo l’assassinio di King, fugge in Canada e quindi in Inghilterra. Lo arrestano all’aeroporto di Londra mentre sta per salire su un aereo diretto a Bruxelles.

 


I PERCHÈ

Un esaltato, un paranoico, un asociale: certo James Ray non era un uomo normale. È considerazione quasi ovvia: nessuno è normale nel momento in cui uccide un suo simile. Ma non basta questa spiegazione per capire la morte di Martin Luther King. Ad armare l amano di Ray è stato anche l’odio razziale, che in alcuni Stati americani del Sud, oppone tanti uomini bianchi alla popolazione negra. Il processo ha stabilito che l’assassino era un “isolato”, che non era cioè una pedina di un complotto come lui aveva voluto far credere, ma ciò non toglie che il seme della violenza erano stati in tanti a buttarlo: nel rapinatore di Alton, quel seme aveva trovato terreno fertile. Era un uomo bacato da molto tempo. Per tentarne la radiografia bisognerà fermarsi soprattutto sugli anni della sua adolescenza, sui valori essenziali di una famiglia che lui non aveva mai conosciuto. Uccidendo King, Ray pensava, nella sua mentalità distorta, di procurarsi una fetta di pubblicità. Forse riteneva anche che, giudicato nello Stato razzista del Tennessee, avrebbe riscosso più simpatia che condanna. Certe sommosse di quei giorni potevano giustificare le sue speranze. E, del resto, alcune reazioni seguite al delitto dimostrarono che Ray non era andato molto lontano dalla realtà drammatica di una società in crisi. Alcuni giornali razzisti lo difesero, qualche avvocato offrì il proprio patrocinio gratuitamente. Poi prevalse la ragione e l’America, il mondo intero, piansero la morte del grande uomo di pace. Una morte che ha dato frutti copiosi: se la predicazione dell’odio razziale aveva armato la mano di Ray, il colpo di fucile che ha stroncato King ha posto i più fanatici razzisti al bando della società civile. Ray ha vissuto dimenticato in una prigione americana e Martin Luther King è diventato un simbolo di fratellanza.



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